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 2016  gennaio 04 Lunedì calendario

Hebron, breve storia della Tomba dei Patriarchi

Ti mando a Hebron. Quando un soldato israeliano ci sa fare, o merita una punizione, la Tomba dei Patriarchi è nel suo destino: una sinagoga e una moschea appiccicate come da nessuna parte al mondo, da guardare con gli occhi aperti il venerdì della preghiera e apertissimi il sabato del riposo. «Io ho già ucciso un arabo. E tu?», è scritto da anni sulla porta di Baruch Mazel, il capo dei 600 coloni ebrei più fanatici di tutta la Cisgiordania. Anche uccidere l’ebreo è tornato di moda: nel 2013, i servizi israeliani prevedevano che la terza intifada sarebbe scoppiata a Hebron e oggi Hebron non ha deluso le aspettative, è diventata la Jenin di tre mesi d’accoltellamenti e cecchinaggi. Se il 67% dei palestinesi nei Territori tifa per i nuovi martiri, sostiene un sondaggio, la città dei Patriarchi è ormai una roccaforte di Hamas che arriva all’85. «Non c’è da sorprendersi – commenta Sever Plocker su Yedioth Ahronot – gli errori a Hebron sono stati enormi. E il primo a sbagliare fu Rabin, che da primo ministro tollerò la crescita dei fanatismi. Questo luogo è un simbolo che non può essere trascurato». 
Figli d’Abramo, figli di Hebron. Il simbolo della fratellanza delle tre grandi religioni abramitiche è quella Tomba del Padre dei Popoli cara a ebrei, musulmani e cristiani, nel cuore svuotato della città più grande della West Bank. Il simbolo del loro scannamento è ciò che sta intorno: soldati, metal detector, vetri antiproiettile per contemplare la Tomba sia dalla moschea che dalla sinagoga. Eredità dei massacri: quello degli ebrei ad opera dei musulmani (1929), quello dei musulmani per il kalashnikov del colono Goldstein (1994). Lascito della politica: il rabbino ultrà che nel 1969 si finse turista e venne a fondare la colonia di Kiryat Arba, oggi una delle più intransigenti, siepi pettinate e belle macchine; Arafat e Rabin che nel 1997 decisero una «divisione temporanea» mai così definitiva. 
Tiph, Temporary International Presence in Hebron, si chiamano i caschi rossi (ci son pure i nostri carabinieri) incaricati di tenere buone le parti. Hebron ha 5 mila anni ed è citata nel Pentateuco, ma furono i pogrom e i giornali del Novecento a darci questo presente impossibile. V’incoronarono Davide re d’Israele, che la fece capitale prima di Gerusalemme, la governarono Saladino e i bizantini, i crociati e gli ottomani, i sasanidi e i bizantini, gli egiziani e gl’inglesi, ma il regno d’oggi è l’angoscia, la spartizione nei settori H1 e H2, i 150 mila arabi a fare da sfondo di quei pochi coloni scortati da 1.500 soldati e dai governi israeliani che ne sostengono le ragioni, le finanze. Perfino gli scavi archeologici, per dimostrare che Hebron vale per un ebreo esattamente come Gerusalemme: «Non si capisce perché il 20% degl’israeliani sia palestinese – il loro argomento – e uno 0,5% degli abitanti di Hebron non possa essere ebreo». 
Casbah spettrale, con la spazzature gettata dai coloni sulla Shiuhada Street degli arabi, rinominata King David Street. Con le stelle di David a spray nero sulle saracinesche abbassate delle 1.220 botteghe di palestinesi fuggiti o falliti. «Qui un palestinese deve sempre dimostrare d’essere innocente – dice la giornalista israeliana Amira Hass – un ebreo invece no». Hebron ha università, affari, squadre di calcio (una l’allena un italiano, Cusin, che faceva il vice di Zenga), vita vera nella sua parte moderna. E poi ha quella storia che la paralizza, il cuore fermo delle tombe di Abramo, Isacco, Sara, Giacobbe, Lia. Una volta venne per una visita Mario Vargas Llosa, lo scrittore premio Nobel. S’indignò: non c’è storia che valga questa cronaca.