Corriere della Sera, 4 gennaio 2016
Cronaca di una guerra annunciata, tra nucleare e petrolio
San Francisco Niall Ferguson resiste alla tentazione. La voglia di sottolineare: io l’avevo detto. Il 24 luglio scorso, con l’inchiostro ancora fresco sull’accordo sul nucleare iraniano, lo storico dell’economia di Harvard aveva scritto un commento per il Wall Street Journal nel quale avvertiva che quell’intesa avrebbe prodotto l’opposto di ciò che gli Stati Uniti vorrebbero. Invece di un nuovo equilibrio fra potenze sunnite e sciite in Medio Oriente, l’esacerbarsi di competizione e ostilità fra un Iran, divenuto oggi interlocutore dell’Occidente, e un’Arabia Saudita insicura del suo rapporto con Washington e della propria tenuta economica.
Adesso, a margine dell’incontro dell’American Economic Association a San Francisco, Ferguson non è stupito della nuova ondata di tensione fra Riad e Teheran. «La grande guerra settaria fra sunniti e sciiti sta entrando in una nuova fase – dice —. Com’era diventato chiaro fin dall’estate scorsa, all’indomani dell’accordo sul nucleare che non chiede all’Iran di frenare il suo supporto del terrorismo in Medio Oriente, il conflitto è destinato ad accelerare. Rischiamo un’escalation, perché le potenze sunnite stanno cercando di resistere alla predominanza dell’Iran in un Medio Oriente post-americano».
Ferguson riconosce che ha un peso determinante lo scisma religioso fra sunniti e sciiti al cuore dell’Islam. «L’establishment religioso sta alimentando le fiamme sia a Riad che a Teheran», riconosce. Ma come intellettuale celebre per le sue analisi dei fattori economici nelle grandi svolte storiche, Ferguson non dimentica il lungo declino dei prezzi del petrolio negli ultimi due anni. Sta giocando un ruolo fondamentale, sostiene. «La pressione al ribasso dei prezzi del petrolio aumenta tensione», osserva.
I dati che Ferguson ha in mente non riguardano solo i minimi di 37 dollari al barile raggiunti dal Brent venerdì scorso. Conta di più l’impatto che la scivolata delle quotazioni sta avendo sulla stabilità sociale in Arabia Saudita. Il crollo delle entrate da petrolio ha fatto esplodere il deficit di bilancio al 15% del Pil, il Regno si sta indebitando ogni giorno di più con l’estero per continuare a funzionare, e molti fondi speculativi prevedono che nel 2016 il rial saudita dovrà abbandonare la parità con il dollaro e svalutare.
Per questo il regime di Riad ha appena presentato un nuovo bilancio che taglia la spesa del 13% in un colpo solo; ancora più rivelatore è il fatto che abbia scelto di imporre l’austerità in un modo che riduca al minimo i malumori nella popolazione: i tagli si concentrano sui sussidi sul gas naturale all’industria petrolchimica, non su quelli ai ceti medi e medio-bassi. L’obiettivo è evitare che le masse di giovani disoccupati del Regno alimentino le file del terrorismo integralista e l’opposizione al regime.
Oggi il surplus di produzione di petrolio rispetto alla domanda mondiale è di circa tre milioni di barili al giorno, dunque per il 2016 i prezzi rischiano di restare bassi. Né l’Arabia Saudita né l’Iran intendono tagliare la produzione, per non cedere ai rivali preziose quote di mercato. La monarchia saudita ha voluto un bilancio pubblico, come se si preparasse a una lunga guerra economica in trincea per la propria sopravvivenza. Commenta Ferguson: «La domanda adesso è quale regime è più vulnerabile fra l’Iran e l’Arabia Saudita». E la risposta dello storico scozzese di Harvard non è rassicurante: «Direi che il regime saudita si sta rapidamente avvicinando alla propria data di scadenza. Ma è stato l’Iran, non l’Arabia Saudita, a vivere l’esperienza di una vera sfida rivoluzionaria dall’interno nel 2009». Il regime di Teheran riuscì a piegare quella rivolta dei giovani modernizzatori. L’Arabia Saudita potrebbe dover far fronte a sua volta a un episodio simile. Eccetto, forse, non d’impronta liberale.