Corriere della Sera - La Lettura, 3 gennaio 2016
Come mai il Ghirlandaio non mise nessuna ciliegia sulla tavola dell’ultima cena dipinta a Passignano
Perché Domenico Ghirlandaio riempì di ciliegie la tavola dell’Ultima cena in Ognissanti e di quella nel convento di San Marco a Firenze, mentre nel Cenacolo della Badia a Passignano, la prima della serie, non ne dipinse neanche una? La domanda mi frullava in testa mentre facevo una ricerca sulle Ultime cene. Una mattina presi il treno e andai a Firenze. Volevo contare queste ciliegie e nelle riproduzioni non ci riuscivo. Nel refettorio di Ognissanti ne trovai 37, in quello di San Marco 61: entrambi numeri primi, divisibili solo per uno e per se stessi. Non se ne trovano mai due vicini. La loro solitudine ha ammaliato scrittori e artisti.
Il Cenacolo della Badia a Passignano, immersa nei vigneti del Chianti, riuscii a vederlo solo in fotografia. Il monastero era chiuso dal 2002, a causa dei restauri. Ma anche nella riproduzione si notava chiaramente l’assenza di ciliegie. Un piccolo mistero che non riuscivo a sciogliere. Sulla tovaglia, soltanto il vino, il pane, il sale e pezzi di carne a fettine nei taglieri. Domenico firmò il contratto con i frati vallombrosani il 25 giugno 1476. Aveva 27 anni ed era già famoso. Quello che successe nei giorni successivi lo sappiamo dal Vasari, il primo storico dell’arte italiana, che era anche un gran pettegolo. Racconta nelle «Vite» che l’artista mandò avanti il fratello David e Bastiano Mainardi, che lo avrebbero aiutato. I due cominciarono a lamentarsi del vitto e dell’alloggio. Alla fine andarono a protestare dall’abate: non era giusto che fossero trattati come manovali. L’abate si scusò, assicurandoli che le cose sarebbero cambiate. Ma arrivò Domenico e tutto continuava come prima. Finché «la sera, postisi a cena, venne il forestario de’ monaci con un’asse piena di scodelle e tortacce da manigoldi, pur nel solito modo che l’altre volte si faceva. David, salito in collera rivoltò le minestre addosso al frate, e preso il pane che era su la tavola avventandolo al frate, lo percosse di modo che mal vivo a la cella ne fu portato. Lo abate che era già a letto, levatosi e corso al rumore, credette che ’l monistero rovinasse; e trovando il frate mal concio cominciò a contendere con David. Per il che infuriato, David gli rispose che gli si togliesse dinanzi, che valeva più la virtù di Domenico che quanti abati porci suoi pari furon mai in quel monistero». L’abate si impegnò personalmente a farli trattare meglio. Ma i tre artisti, per andarsene il prima possibile, devono aver apparecchiato la tavola di Gesù nella maniera più semplice.
L’ipotesi della fretta sembra ora confermata dalle ricerche effettuate nel corso dei restauri, che finalmente sono giunti a termine. La Badia è stata riaperta nei giorni scorsi. Basta bussare e i frati vallombrosani guidano i visitatori fino al Cenacolo. Claudio Paolini, storico dell’arte che ha diretto il cantiere dei lavori insieme all’architetto Giorgio Elio Pappagallo, ammette che la tovaglia ha creato problemi anche a loro: «È dipinta in modo sbrigativo e molto grossolano, in contrasto con il resto della scena. È noto che l’affresco si affronta partendo dall’alto. E infatti le prime giornate sono dedicate alla scatola prospettica in cui è inserita la tavola: il soffitto a cassettoni, i ricchi capitelli compositi, i fregi a palmette, ovuli e dentelli della cornice riemersa sotto le pesanti ridipinture ottocentesche. E sulla sporgenza della cornice sono riapparsi particolari che testimoniano dell’amore nei confronti del proprio mestiere: un vasello con lo stilo, un compasso, un filo a piombo. Quasi poggiati lì, e poi dimenticati, dagli artisti che avevano lavorato sui ponteggi. Scendendo, ecco le bellissime teste di Gesù e degli apostoli, fortemente caratterizzate, già da sole capaci di farci comprendere la fama che arriderà a Domenico come ritrattista». Racconta Paolini che per la scansione della scena il pittore si era ispirato all’Ultima cena di Andrea del Castagno in Sant’Apollonia, con la lunga tavola rettangolare, gli apostoli disposti ordinatamente ma di fatto isolati tra loro e immersi in una riflessione quasi filosofica, Giuda dalla parte opposta della tavola, di spalle, a sottolineare in modo esplicito il tradimento da lui compiuto. Ma Andrea del Castagno aveva dipinto accuratamente una tovaglia tessuta a piccole losanghe, la stessa che Domenico riprenderà nelle sue Ultime cene successive. Qui, invece, la tovaglia è resa con pennellate grandi e veloci di bianco gessoso. «Incomprensibile», dice Paolini. «Tanto che abbiamo pensato a un errore di restauro del cantiere aperto nel 2002. Il dubbio ci ha spinto a rifare le analisi, a pulire di nuovo alcuni tasselli, ma la pittura originale era effettivamente così, tirata via».
Il lungo ciclo di lavori fu iniziato dalla Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le province di Firenze, Prato e Pistoia. Finiti i fondi, circa duecentomila euro, il restauro si era interrotto. Finchè all’inizio del 2015 non sono intervenuti, con altri duecentomila euro, i Friends of Florence, fondazione no profit americana, creata nel 1998 da Simonetta Brandolini d’Adda con lo scopo di preservare e valorizzare il patrimonio artistico della Toscana.
Chi visita oggi il Cenacolo del Ghirlandaio entra in un luogo completamente diverso da quello che si vedeva prima del 2002. Allora l’affresco occupava la parete di fondo di un salone neogotico, che oggi ha riconquistato l’aspetto originario del refettorio costruito sul finire del Quattrocento, quando il monastero era al culmine dello splendore. Finite le opere murarie, i frati affidarono a Bernardo Rosselli, cugino del più celebre Cosimo che dipinse l’Ultima cena nella Cappella Sistina, l’incarico di decorare la parte alta della parete di fondo con le due lunette che raffigurano Adamo ed Eva e Caino e Abele. Qui il restauro ha riportato alla luce le nudità dei progenitori nel paradiso terrestre. Nel 1598 i frati decisero di arricchire le pareti laterali con una fascia continua di affreschi, eseguiti da Benedetto e Cesare Veli e raffiguranti santi e beati dell’ordine vallombrosano. È stato proprio il ritrovamento di queste figure a far decidere il ripristino del refettorio, trasformato, dopo la soppressione del monastero attuata dallo Stato italiano nel 1866, nel salotto di casa dei nuovi proprietari, i conti Dzieduszycki. Costoro modificarono l’intero fabbricato in un castello medievale, arricchendolo di citazioni eclettiche. Nel refettorio fu costruito un ampio camino, vennero aperte due grandi porte che affacciavano sul chiostro e una terza sulla parete di fronte. Nel 1986 la Badia tornò ai vallombrosani. Ora il camino è stato demolito, le porte tamponate. Sono riapparse le tre finestre sulla parete destra del refettorio, che il Ghirlandaio fece rispecchiare nelle bottiglie a cipolla disposte sulla tavola. Con un realismo impressionante: infatti la bottiglia al centro ne riflette tre, la seconda verso destra due, la terza nulla, come sarebbe accaduto se tavola e bottiglie fossero state vere.