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 2016  gennaio 03 Domenica calendario

Modesta proposta per aiutare i giornali di carta: chiudere i siti

La prima volta che fui assunto all’Arena, 40 anni fa, nello stabilimento di San Martino Buon Albergo le righe delle pagine uscivano incandescenti dalle linotype tra sbuffi di piombo, antimonio e stagno. Nell’aprile 1984 il quotidiano cittadino, dov’ero tornato a lavorare sette mesi prima, decise di passare dal caldo al freddo, cioè alla fotocomposizione. I videoterminali per elaborare titoli e testi furono riservati ai soli tipografi. Dopo qualche tempo vennero dati in dotazione anche ai giornalisti.
La redazione prescelta per introdurre il nuovo sistema editoriale fu quella che si occupava delle cronache provinciali, forse perché l’età media di coloro che vi lavoravano si aggirava sui 25 anni, quindi era ritenuta dal direttore la più duttile e la meno ostile alla novità. Io ne ero il caposervizio e disponevo della vista acuta tipica di un trentenne. Infatti controllavo agevolmente i titoli sputati da una stampante che, per misteri insondabili, non andava oltre il corpo 5 (fate conto la metà, quanto a dimensioni, dei caratteri che state leggendo in questo istante). Trascorsi pochi giorni, pronunciai un vaticinio che irritò parecchio i miei amici tipografi: queste macchinette – loro le chiamavano così – vi spazzeranno via. È andata come avevo immaginato. Nel ciclo produttivo di un quotidiano, oggi i poligrafici rappresentano un’esigua minoranza. Fanno quasi tutto i giornalisti.
Trascorsi 30 anni, vi confesso, cari lettori, che sono assillato da un analogo funesto presagio: non sarà che anche la mia poco benemerita categoria è condannata all’estinzione, insieme con l’oggetto di carta che tenete fra le mani e con l’edicolante che ve lo consegna ogni mattina? La vigilia di Natale mi chiama l’amministratore delegato di un gruppo editoriale per farmi gli auguri: «Lo sai che nel giro di un anno i primi otto quotidiani nazionali hanno perso per strada 225.000  copie al giorno? È come se avesse chiuso La Repubblica, suppergiù. Mai visto nulla di simile. E nessuno ha detto nulla». Già. Non il governo, non gli editori, non i giornalisti. Saranno aumentate le copie digitali, ho obiettato. «Un pochino, comunque non al punto da giustificare questa carneficina», ha ribattuto l’amico manager.
La mia mente, da tempo ingombra di brutti presentimenti, ha cominciato a macinare pensieri ancora più cupi. E mi sono chiesto che cosa rappresento per voi. Un brandello di cellulosa o un fascio di byte? Voglio dire: come mi state leggendo, ammesso che lo stiate facendo (i giornalisti sono notoriamente megalomani)? su carta? su pc? su tablet? su smartphone?
Dell’Arena di quando ero bambino ricordo che la comprava uno zio e che la sfogliavo di sera, quando dall’officina la portava a casa di mia nonna. Ho ancora impressi nella memoria il titolo a caratteri di scatola del giorno in cui fu assassinato a Dallas il presidente Kennedy e i flani della pagina degli spettacoli che mi hanno ispirato la passione per il cinema. Dei giornali della mia adolescenza, La Notte e Il Giorno in particolare, rammento che li distinguevo dall’odore dei rispettivi inchiostri, al punto tale che alla scuola media i miei compagni di classe mi bendavano per farmi indovinare con l’olfatto le varie testate.
Quell’Italia non esiste più, eppure il quotidiano è rimasto pressappoco uguale ad allora, introduzione del colore a parte, cioè un prodotto che viene chiuso in tipografia, come si dice in gergo, alle 10 di sera (nel caso dell’Arena fra l’1 e le 2 di notte, il che consente di offrire qualche aggiornamento in più ai lettori) e poi aspetta fino alle 6 di mattina per essere posto in vendita. Otto ore. Più del tempo che c’impiega un Frecciarossa per andare da Bolzano a Napoli. Ha senso, nell’era della comunicazione istantanea?
Inoltre il giornale di carta è un prodotto assai dispendioso, non solo perché il personale gode di speciali indennità per il lavoro in orario notturno, ma anche per i costi industriali (rotative, piegatrici, fascettatrici, cellofanatrici), tipografici (carta, inchiostro, elettricità), diffusionali (auto che devono raggiungere le più remote località, rese elevate). Volete mettere il giornale digitale? Quattro smanettoni esperti di grafica ed è fatto. Alle 3.30 di notte già si può leggere in qualsiasi parte del mondo. Consente di conservare gli articoli, di spedirli per posta elettronica, di eseguire ricerche per parole chiave, di consultare le copie arretrate. Un’azienda statunitense, Plastic logic, ha brevettato display flessibili che si possono arrotolare: le pagine, scaricabili dall’etere con un collegamento dati, si materializzano sui sottili supporti come se fossero vere.
Da questa ibridazione nascono i guai dell’editoria. Il giornale cartaceo va stampato tutte le notti nonostante il bagno di copie, ma il suo clone telematico per il momento non può sostituirlo. Come se ciò non bastasse, solo il 26% degli italiani, ormai, s’informa sui quotidiani, mentre il 49% lo fa attraverso Internet. I ventenni non sfiorano i giornali – ho due esempi in casa – neppure se è il loro padre a scriverci sopra. La Rete è l’unico mezzo che avanza. Nel 2007 la utilizzava con sistematicità il 25% dei cittadini, oggi siamo al doppio.
E qui, secondo me, gli editori hanno dimostrato una spiccata vocazione all’autolesionismo. Complice il calo drammatico della pubblicità provocato dalla Grande Crisi, a partire dal 2008 si sono buttati sul Web, pensando di compensare le perdite. Sbagliato. Internet è il regno del tutto è di tutti, quindi del tutto è gratuito. Il nemico mortale dei giornali. Le statistiche documentano un paradosso: più i quotidiani inseguono il pubblico sulla Rete, mettendogli a disposizione siti aggiornatissimi e ricchi di contenuti, più perdono copie.
A fronte di tracolli che in edicola arrivano fino al -41,9% su base annua, riescono a contenere i danni solo i giornali che centellinano con il contagocce le informazioni su Internet. Ma c’è persino il caso record di un foglio catanese, il Quotidiano di Sicilia, che nell’ultimo anno ha aumentato le copie del 47,5%. Ebbene, fatevi un giro sul suo sito: suscita ribrezzo, tanto è misero. Il 24 dicembre la notizia d’apertura era la seguente: «Vacanze di Natale a... Courmayeur». E dopo sette righe s’interrompeva con questa formula: «Per leggere l’inchiesta completa abbònati qui o acquista il giornale in edicola». Non c’è da lustrarsi gli occhi neppure sul sito di Italia Oggi, che infatti nell’ultimo anno ha visto crescere le vendite in edicola del 3,8% e fra i 68 quotidiani monitorati dall’Ads (Accertamenti diffusione stampa) è uno dei quattro che ancora conservano il segno «+» davanti.
In questo Paese la spesa media per giornali e riviste è di appena 8,39 euro mensili pro capite. Il costo di cinque quotidiani. Scusate tanto: perché gli italiani dovrebbero sprecare 1,50 euro al giorno se quello che vogliono lo trovano gratis sulla Rete? Mi sa che i giornalisti hanno deragliato: sono l’unica categoria al mondo che sta regalando il proprio lavoro. La domenica consulto di buonora il sito della Repubblica e posso delibare l’omelia del Fondatore. E dovrei cercare Eugenio Scalfari in edicola? Ogni mattina alle 7 mia moglie si fionda sul sito della Stampa per leggersi il Buongiorno, rubrica imprescindibile per qualità di scrittura e saggezza. E dovrebbe cercare Massimo Gramellini in edicola?
Purtroppo Internet, croce e delizia di questa epoca, ha inoculato nella maggioranza del pubblico la convinzione che quanto compare nei siti dei giornali sia, se non il contenuto esatto della copia cartacea, un compendio breve di essa o quantomeno un valido surrogato. Non è affatto così, ma siamo stati proprio noi giornalisti a farglielo credere.
Dopodiché ci sono anche in circolazione astutissimi predoni telematici che ci fregano le nostre opere d’ingegno, senza che la casta degli scribi muova un dito per impedirlo, anzi ben contenta di farsi plagiare. Prendete il caso di Dagospia, che ogni giorno fornisce la rassegna stampa del meglio pubblicato sui giornali, sapientemente condita con un mix di goliardia, sesso e pettegolezzi. Guai a definirlo un sito di gossip: Roberto D’Agostino s’inalbera. «È un bollettino d’informazione, punto e basta», mi disse quando lo intervistai nel decennale di apertura. Pochi giorni fa ho dovuto concludere che aveva ragione: su 44 titoli pubblicati la vigilia di Natale, 7 erano articoli copiati (ripresi, per usare un etereo eufemismo) dalla Repubblica, 4 dal Giornale, 4 dal Fatto Quotidiano, 3 dal Corriere della Sera, 3 dalla Stampa, 2 da Libero, 1 dal Corriere dello Sport, 1 dal  País, 1 dal New York Magazine, 15 da altri siti (soprattutto di giornali) e 3 erano flash di poche righe prodotti in proprio o frutto di repliche pervenute da personaggi tirati in ballo. Originalità di contenuti: zero. E va così più o meno tutti i giorni, senza che nessuno intervenga, neppure gli editori che in fondo ai pezzi fanno inserire la dicitura «Riproduzione vietata».
Conclusione. L’unica che ha dimostrato di avere idee chiare in proposito mi pare Laura Cioli, nuovo amministratore delegato di Rcs Mediagroup, la quale ha annunciato che da gennaio per l’edizione online del Corriere i contenuti di alta qualità saranno a pagamento. Fossi in lei, andrei persino oltre: proporrei alla Federazione italiana editori giornali di provare a chiudere per sei mesi i siti di tutti i giornali, listandoli a lutto. Una moratoria informatica. E vediamo che cosa mangiano mattina, mezzogiorno e sera gli scrocconi del Web.
Buon 2016 a tutti, ma soprattutto agli amici edicolanti. Se L’Arena a ottobre festeggerà il 150° anniversario di fondazione, è merito loro.