La Stampa, 3 gennaio 2016
Nel Donbass la guerra continua
Le esplosioni rimbombano nella nera notte di Donetsk. Le finestre tremano, ma nessuno sembra farci caso. Gli abitanti della capitale della, non riconosciuta, Repubblica Popolare di Donetsk, sono ormai rassegnati a convivere con i boati dei colpi di mortaio, delle granate, che hanno reso la periferia del capoluogo del Donbass un agglomerato di edifici distrutti.
Una guerra, iniziata un anno e mezzo fa, che molti giudicano «congelata», ma che invece, è realtà. Del resto la Russia c’è da queste parti, e si vede. Le bandiere di Mosca hanno sostituito quelle ucraine, molti soldati fra le trincee di Debaltsevo e Horlivka, all’aeroporto di Donetsk, sono russi. Volontari, dicono. La linea di contatto di Zaicevo è tutt’ora una delle più attive. I due eserciti distano poche centinaia di metri l’uno dall’altro. Da una parte e dall’altra, sia sul fronte ucraino sia su quello separatista, ogni giorno si contano i feriti, a volte i morti. «Ieri, proprio in questa trincea, sono morti due dei nostri. I colpi provenivano dall’aeroporto di Donetsk, che è a poche centinaia di metri in linea d’aria» racconta Konstantin, di stanza a Pisky con la 93a brigata dell’esercito regolare di Kiev.
Tregua inesistente
È proprio in queste trincee di fango e neve nelle quali gli accordi per il «cessate il fuoco» raggiunti a Minsk nel febbraio scorso sembrano una cosa lontana, marginale. Decine, a volte centinaia, le violazioni giornaliere, da entrambe le parti, perché in fondo nessuno ha intenzione di risolvere in maniera pacifica un conflitto che ha già fatto oltre 9 mila morti e ha costretto un milione e mezzo di persone a lasciare le proprie case e a spostarsi in altre regioni del Paese per poter continuare a vivere.
Gli osservatori dell’Osce l’hanno detto chiaramente: sia l’esercito di Kiev sia quello separatista, supportato, in maniera nemmeno troppo discreta, dalla Russia, continuano ad utilizzare armi e munizioni che non dovrebbero essere presenti sulla linea di contatto. Mortai da 85 e 120 mm, carri armati, obici da 120 mm, nessuno di questi potrebbe, secondo gli accordi raggiunti, stare sulla linea del fronte.
Ma invece sono lì, e sparano. «Non dovrei dirlo ma, almeno qui, è l’esercito regolare che inizia, tutti i giorni, a sparare. Se loro non sparano i separatisti stanno tranquilli» spiega Vitalik (il nome è di fantasia), in piedi di fronte alla sua casa mezza distrutta a Lohvynove, a pochi chilometri da Debaltsevo e dalla linea del fronte «I civili non ne possono davvero più. Le case sono distrutte, l’economia è a pezzi, se non fosse per gli aiuti umanitari saremmo già morti».
Dramma umanitario
Una soluzione pacifica, è quello che molti sperano. Perché il conflitto sta mettendo in ginocchio centinaia di migliaia di famiglie, costrette a rifugiarsi ancora nei bunker sotterranei quando gli scontri salgono di intensità. Al gelo, al buio, di notte, donne e uomini, bambini e anziani, arrivano ad aspettare anche venti ore per poter passare dalla Repubblica Popolare di Donetsk in territorio ucraino, e viceversa. E questo per andare a lavorare, per andare a trovare dei parenti, degli amici. O anche solo per andare in banca, visto che il circuito bancario, come la maggior parte dei servizi, è collassato. Intanto per le strade di Donetsk, Horlivka, nei quartieri fantasma, nei villaggi rasi al suolo, come Nikishyne, la rabbia nei confronti di Kiev monta sempre più forte.
Aumenta l’odio reciproco
Così come l’insofferenza da parte ucraina nei confronti dei separatisti filo-russi. «Il prolungarsi del conflitto non farà altro che alimentare l’odio tra le due parti. Personalmente, e so che molti la pensano come me, non voglio che il Donbass esca dall’Ucraina. Voglio che possa arrivare ad avere una sua autonomia all’interno del Paese. Se così non fosse, allora sì che preferirei far parte della Russia» afferma Evgeny, uno dei pochi commercianti che a Donetsk prova a resistere alla crisi economica e al coprifuoco. «Negli ultimi mesi le attività militari sono aumentate, non so che senso abbia il “cessate il fuoco” e a noi poco importa. Non arretreremo di un millimetro, difenderemo la nostra terra fino all’ultimo, difenderemo il Donbass dai fascisti di Kiev» dice Aleksey; sigaretta in bocca, simbolo della Novorossiya sul cuore.