La Stampa, 3 gennaio 2016
L’Albania e il reclutamento dei foreign fighters
«I non credenti sono condannati dal Corano». È l’imam Kreshnik Cili, meccanico in un’officina nel villaggio di Cerrik, sessanta chilometri a Sud di Tirana, la porta di accesso alla galassia dei predicatori jihadisti albanesi che perseguono l’applicazione della sharia nei Balcani, sulle rive dell’Adriatico. Il suo approccio alla violenza è, così dice, senza esitazioni: «Non è giusto uccidere donne, bambini o cristiani, ma i non credenti, gli atei, gli apostati sono condannati dal Corano».
Sospettato di far parte della rete di reclutatori di foreign fighters albanesi andati a combattere in Siria, Cili è sotto massima sorveglianza. Lo testimoniano il pulmino e l’auto della polizia a due isolati di distanza. Contro di lui non sono state trovate prove sufficienti dalla polizia albanese e dunque non è stato incriminato. Raccoglie le arance assieme a un nipote, da un albero nel cortile sul retro.
Ci riceve in una specie di ufficio, tra pezzi di ricambio e lubrificanti. La sua moschea è fra quelle che rifiutano i controlli della Comunità islamica albanese (Kmsh), rappresentando punti deboli della rete anti-foreign fighters messa in piedi dal governo di Tirana. Cili ha la barba lunga e il copricapo distintivi dei salafiti, ed è circondato da cinque seguaci di diverse età che non vogliono farsi fotografare. Considerano ogni occidentale un intruso, se non un nemico. «L’Islam è pace e amore – ripete l’imam, con un tono di voce in crescita – siamo aggrediti dalle manipolazioni di politici e giornali che vogliono mettere le persone una contro l’altra. Creano odio. Qual è il tuo giornale?».
Luoghi di culto
Cili nega che in zona ci siano combattenti andati in Siria, o tornati, ma l’area fra Kavaje e Cerrik è in realtà fra le più a rischio, sorvegliata dalle unità anti-terrorismo. È un’Albania povera, lungo il corso del fiume Erzani, case non intonacate, strade sterrate con dappertutto il cartello «Shitet», in vendita. È qui che sorgono 200 luoghi di culto islamici – su 727 complessivi – che sfuggono al controllo del governo. Seguendo il percorso fra le principali moschee ci si addentra nella galassia dei jihadisti albanesi.
Con Al Nusra
Uno di loro è Ebu Merjen, andato in Siria nel 2012 e tornato alla fine del 2013. Nato e cresciuto a Shkodra, nel Nord dell’Albania, quasi al confine con il Kosovo, Ebu Merjen ha militato in «Al Nusra» – espressione siriana di Al Qaeda – ed è tornato prima che scattasse la legge anti-terrorismo del 2014 che l’avrebbe condotto in carcere. Rifiuta di incontrare giornalisti italiani, ma parla con una collega albanese. «Non ho combattuto – afferma – solo perché non sono riuscito a procurarmi un’arma». È la tesi che gli ha permesso di tornare, evitando l’arresto. Ebu Merjen ha avuto qualche piccolo impiego come autista e in un bar, ma l’ha perso perché non accettava «di tagliarsi la barba» e soprattutto di «ingannare i clienti, è proibito dal Corano». Questa radicalizzazione a tratti ingenua è tipica dei salafiti albanesi, secondo la giornalista di «Balkan Inside» Aleksandra Bogdani, specializzata nelle loro storie: «All’inizio degli Anni Novanta, subito dopo il crollo del comunismo – spiega – abbiamo assistito a un picco di conversioni che hanno alimentato il flusso di foreign fighters. Li chiamiamo “wahhabiti in sei mesi”, cioè dall’ideologia posticcia e affrettata».
Il marito dell’italiana
Altro caso è quello di Aldo Cobuzzi, combattente albanese dal nome italiano, sposo della jihadista italiana Maria Giulia Sergio. Cresciuto nel villaggio di Lushnje, Albania centrale, è stato radicalizzato dalla improvvisa conversione della madre dopo il divorzio. Ora si trova a Raqqa, capitale siriana del Califfato, ed è fra quelli che l’intelligence italiana deve intercettare a ogni costo nel caso tentasse di tornare nello Stivale. Secondo una stima prudente sono circa 40 i foreign fighters già tornati in Italia, passando quasi sempre attraverso i Balcani. Una decina sono morti in combattimento, lasciando «almeno 17 bambini orfani e 13 vedove», conferma Bogdani.
Il pentito e il predicatore
Uno di loro è Ervin Hasanaj, della cittadina di Librazhd. La madre ha saputo del suo decesso da una delle nuore attraverso un messaggio WhatsApp dalla Siria: «Ora è morto ed è meglio così per tutti». La realtà è che Ervin voleva tornare in Albania ed è stato giustiziato come disertore. La moschea di Librazhd fa parte delle cinque fuori dalla giurisdizione ufficiale della Kmsh ritenute più pericolose. Le altre sono quella di Mezeze, a Tirana, Unaza Ere alla periferia della capitale, le già citate Kavaje a Cerrik e Pogradec, nel Nord. Della moschea di Leshnica, nella zona di Pogradec, è l’ex predicatore Almir Daci, legato alla rete degli imam arrestati, Genci Balla e Bujar Hysa. Daci è apparso con il nome di battaglia Abu Bilqis Al Albani in un video dell’Isis del giugno 2015, «Honor is Jihad». Ed è ritenuto responsabile del reclutamento di Ervis Alinji e Denis Hamzaj, due giovani jihadisti morti in Siria.
Se durante i quarant’anni di regime comunista quasi tutte le moschee fuori da Tirana erano state rase al suolo ora è un brulicare i cantieri. Ci sono i progetti ufficiali, come per la nuova grande moschea della capitale, da 30 milioni di euro e 20 mila mq, i cui lavori sono stati inaugurati a maggio alla presenza del presidente turco Erdogan. Ma ci sono anche cantieri dai finanziamenti poco chiari. Il Kmsh cerca di fare il possibile. A Kavaje la moschea del 1444 è stata riscostruita in perfetto stile ottomano ed è controllata dal muftì Besnik Lecini, nel «segno della tolleranza – spiega – perché sotto il comunismo eravamo tutti perseguitati, cristiani e musulmani». Alla moschea Mezezit, dove predicava il reclutatore Hysa, è stato nominato un imam ufficiale legato alla Kmsh, ma in quella di Unaza Ere il nuovo imam Armand Ali non accetta controlli né di essere intervistato. Il suo sms è lapidario: «Ho letto l’articolo del 2 gennaio sulla “Stampa”. Non mi è piaciuto per niente. Con voi non parlo».