la Repubblica, 3 gennaio 2016
Joann Sfar, il disegnatore ebreo-ateo che ha simpatia per i credenti. Intervista
PARIGI. NELL’APPARTAMENTO DI JOANN SFAR giocano due gattini di razza orientale come il personaggio principale del suo fumetto, Il Gatto del rabbino. Hanno appena distrutto un pacco di fazzoletti. «Sono ancora in un’età in cui fanno molti dispetti» racconta Sfar, quarantaquattro anni, che si specchia in questa eterna voglia di burlarsi. È uno dei più profilici disegnatori francesi, regista di due film, ha brevemente collaborato con Charlie Hebdo.
Dopo gli attentati del gennaio scorso è stato costretto a interrogarsi sulle responsabilità del suo mestiere, sul valore della laicità, lui che è ebreo ateo ma da sempre curioso delle religioni, e su come diffondere la tolleranza. Sfar va spesso nelle scuole per parlare con i ragazzi. «Cerco soprattutto di farli ridere. Non arrivo con risposte, cerco di provocare domande». In questo 2015 cominciato con Charlie Hebdo e da poco finito con gli attacchi del 13 novembre, Sfar ha annotato sui suoi taccuini le riflessioni su quei fatti. Ora disegni e parole vengono raccolti nel graphic novel autobiografico Se Dio Esiste.
Il titolo non ha punto di domanda. Perché?
«È un titolo un po’ scemo e abbastanza vago per far venire voglia di leggere il libro. Nove anni fa decisi di interrompere la serie sul Gatto del rabbino perché ero convinto che non c’era più interesse per il cosiddetto scontro di civiltà. È impressionante vedere invece che il dibattito ruota ancora intorno a Dio. Trovo che siano discussioni infantili, almeno per come vengono poste».
Parla da ebreo non credente?
«Nel giudaismo mi piace l’idea che il sentimento religioso possa realizzarsi fuori da uno Stato o da una terra. È una forma di utopia: conservare e promuovere una cultura nell’erranza. Mio padre era avvocato e veniva da una famiglia di ebrei algerini abbastanza tradizionalisti, mentre mia madre era figlia di ebrei dell’Ucraina, molto intellettuali e assolutamente non religiosi. Mia mamma, che faceva la cantante pop negli anni Settanta, è morta quando avevo quattro anni. Il lutto ha segnato per me la fine di qualsiasi fede, ma ho sempre avuto simpatia per i credenti. Alla mia innata curiosità, si sono aggiunti gli studi in filosofia. Sono così giunto alla conclusione che la religione è un’idea come le altre. È l’approccio francese che gli americani faticano a capire. Perché se siamo tutti d’accordo che non si uccide per un disegno, siamo invece più divisi sul diritto di scherzare su ciò che alcuni considerano sacro. Ancora oggi è un principio controverso che esiste solo in Europa, e forse solo in Francia. Eppure è la ricchezza di questo paese. I miei migliori amici si chiamano Marjane Satrapi e Riad Sattouf».
Che ruolo ha in questo dibatttito?
«Non ho ideologie né risposte. Il fumetto autobiografico permette di dire cose provocatorie seguite da altre più dolci. Non c’è mai davvero un punto finale. È un diario. Parlo con tutti. Siamo condizionati dagli schemi tv, da opposizioni fra categorie. A me piacciono invece i paradossi. Cerco una ragazza velata che legge Charlie Hebdo e la trovo, come racconto in alcune tavole di Se Dio esiste».
Lei frequenta molti musulmani?
«Non chiedo di che religione sei quando conosco qualcuno, ma la maggior parte dei miei amici sono arabi. Discutiamo per ore, magari senza trovare soluzioni collettive, ma a livello individuale c’è speranza. La frase che preferisco nel Gatto del rabbino è “L’amicizia tra i popoli è una merda, viva l’amicizia tra gli uomini”. Fare sport insieme, o capoeira come racconto, è un ottimo modo per accorciare le distanze. A Nizza, dove sono nato, mi siedo a tavola con anarchici, comunisti e persino gente del Front National. A Parigi si fa molto meno, purtroppo».
Lei prende come modello di convivenza il Maghreb, perché?
«L’islamismo è roba vecchia: oggi bisogna raccontare un’altra storia. Il Maghreb non è una terra araba invasa dagli occidentali. Ci sono state varie invasioni, dai Romani agli Ottomani. È un mélange straordinario. In Algeria la maggioranza della popolazione non è di origine araba ma berbera. La regina dei berberi si chiama Kahina, e non è escluso che sia ebrea. Le popolazioni che si mischiano oggi a Parigi sono le stesse che vivevano ad Algeri negli anni Trenta».
Parla del razzismo che c’è in Francia?
«In Italia o in Spagna è più facile sentire insulti razzisti, ma alla fine gli immigrati trovano una strada per integrarsi. In Francia non si dicono frasi orrende ma c’è più razzismo. La discriminazione è nei fatti, per chi cerca un lavoro, una fidanzata, alcuni amici hanno problemi persino a entrare in discoteca. Nelle boulangerie i neri stanno al forno e mai alla cassa. Ora succede anche agli ebrei. Quando mi sono separato ho avuto relazioni con donne musulmane. Ogni volta si svegliavano nel cuore della notte col timore che amici o parenti scoprissero che erano andate a letto con un ebreo. Per una volta ho provato quel che prova un nero. Ma non fa ridere».
Anche l’antisemitismo è in aumento?
«Anche qui c’è un problema di falsa identificazione. Dopo l’attacco all’Hyper Cacher qualcuno ha detto che gli ebrei uccisi scontavano la politica di Israele in Medio Oriente. È sbagliato fare questa confusione. In Francia c’è un vecchio antisemitismo di estrema destra e uno nuovo che viene dagli integralisti islamici, molto più pericoloso. Sento nuove barriere che si creano tra le persone».
Perché dopo gli attentati di novembre ha criticato lo slogan “Pray for Paris”?
«L’obiettivo dei terroristi è rinchiudere la società francese tra diverse religioni e attaccare i cosiddetti “miscredenti”. Rispondere con la preghiera è dare ragione agli attentatori. La religione deve rimanere un fatto privato. Non sono credente ma prego a modo mio. Dopo gli attentati sono andato a sentire musica classica, ho letto tanti bei libri. La spiritualità è anche questa. Ed è quella che dobbiamo difendere tutti insieme».