la Repubblica, 3 gennaio 2016
«Non ci sono donne nella vita del Presidente». Il punto su Putin, di nuovo sugli scudi
NEL MONDO LO AMANO in pochi. E quei pochi non sono tra i più apprezzati dalla comunità internazionale. Per citarne alcuni: l’ex presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, il presidente kazako Narsultan Nazarbaev e, fino a qualche tempo fa, il presidente turco Recep Erdogan, diventato bersaglio di accuse anche infamanti dopo l’abbattimento di un cacciabombardiere Sukhoi al confine con la Siria.
In patria, invece, lo amano in molti, la stragrande maggioranza dei russi: Vladimir Vladimirovic Putin, sessantatré anni compiuti il 7 ottobre dell’anno scorso, ha il più alto indice di gradimento che un presidente russo abbia mai avuto. Forse soltanto Stalin lo ha eguagliato quando guidò l’Unione Sovietica nella sconfitta di Hitler; ma allora i sondaggi non esistevano, ovviamente, e neppure l’opinione.
Il consenso di Putin oscilla da almeno un paio d’anni attorno all’80 per cento ed è ancora salito con l’intervento armato in Ucraina e l’annessione della Crimea, due azioni che lo hanno invece portato al più basso livello di stima internazionale e addirittura alle sanzioni contro la Russia.
L’esatto contrario era accaduto a Mikhail Gorbaciov, molto amato all’estero e pochissimo in patria: la glasnost e la perestrojka piacevano all’Occidente, che accordò un credito quasi illimitato a “Gorby” («Con quest’uomo si possono fare affari», disse la signora Thatcher dopo il primo incontro) mentre i suoi compatrioti lo consideravano piuttosto un pasticcione velleitario. Ricordo ancora lo sorpresa che provai quando, tornato a Mosca dopo diversi anni in cui il visto mi era stato negato, incontrai una vecchia conoscente, che aveva avuto varie vicissitudini familiari sotto il regime brezneviano e che, a un mio accenno a «speranze di democrazia», mi ributtò in faccia: «Ma che cosa è tutto questo bardak (casino) di parole e parole! Quello che conta è che oggi i negozi sono più vuoti che ai tempi di Breznev».
Oggi la maggioranza dei russi attribuisce a Putin il merito di aver ridato alla Russia la dignità internazionale e la fierezza nazionale, perdute non solo con Gorbaciov, ma ancor più con gli “anni dei torbidi” di Boris Eltsin. Arkady Ostrovsky, il Russia editor di The Economist, autore di un libro che ripercorre questi trent’anni di storia (The Invention of Russia: The Journey from Gorbachev’s Freedom to Putin’s War) ha messo acutamente in evidenza le ragioni, ma anche le contraddizioni, della enorme popolarità di Putin in patria: «Accendete la televisione russa e il Paese che viene fuori dallo schermo è una nuova (o, piuttosto, una restaurata) superpotenza che sfida il tentativo americano di dominare il mondo...». Ma «spegnete la televisione russa e i successi di Putin cominciano a sbiadire...». È vero che l’economia è in recessione, che l’inflazione è attorno al 15 per cento, che i ricchi cercano di portare i loro capitali all’estero e i poveri, o anche la media borghesia (che esiste di nuovo in Russia, dopo essere sparita nell’era sovietica), oggi fa più attenzione, per citare ancora Ostrovsky, «al proprio frigorifero che agli schermi della tv». Ma i russi hanno un’atavica abitudine alla sopportazione e agli stenti e quello che c’è nei frigoriferi o quello che (non) trovano nei negozi in seguito alle sanzioni per l’invasione in Ucraina conta meno del fatto che Putin li ha «rimessi in piedi dopo anni in cui si erano abituati a stare inginocchiati», come dice un conoscente russo molto addentro ai segreti del potere – anche se amabilmente reticente ogni volta gli chiedo se abbia un secondo lavoro, oltre a quello ufficiale.
Non è stato un percorso facile, né breve per Vladimir Putin, l’uomo che prese il potere nel 2000 da Eltsin (il quale, ingenuamente, pensava di poterlo controllare e manovrare), finse di cederlo dal 2008 al 2012 al suo fantoccio Medvedev, in omaggio alla Costituzione che ha sempre formalmente rispettato, e lo riprese nel 2012 per potersi auto-celebrare con le Olimpiadi invernali di Soci nel 2014.
Riguardando soltanto gli ultimi quindici mesi, la parabola del presidente russo è passata da un iniziale declino a una sorprendente risalita. Ancora nel novembre 2014, al vertice del G20 a Brisbane, Putin era apparso quasi un reietto, accusato di grossolana violazione del diritto internazionale per l’intervento in Ucraina e sanzionato economicamente; tanto che aveva lasciato il summit in anticipo per sottrarsi a critiche e confronti imbarazzanti. Anche all’incontro di cinquantaquattro capi di Stato e di governo, che si era tenuto a Milano per l’Expo, Putin era riuscito a irritare tutti, arrivando in ritardo al banchetto ufficiale (aveva preferito restare più a lungo a Belgrado, dove era stato trattato con tutti gli onori, anziché rischiare l’esposizione al gelo politico milanese), annullando o spostando incontri bilaterali e cercando comunque di mascherare l’imbarazzo e l’irritazione con l’arroganza.
L’intervento in Siria, preparato con cura e in gran segreto, ha fatto girare la ruota. Al vertice del G20 di Antalya, in Turchia, giusto un anno dopo quello umiliante di Brisbane, Putin è stato l’attore protagonista, battendo i pugni sul tavolo di fronte a coloro che un anno prima li avevano battuti davanti a lui. È stato il momento in cui si è capito che la Russia si sentiva di nuovo una superpotenza e il suo presidente l’ago della bilancia globale nelle molteplici crisi che dilaniano il pianeta. Citando ancora Arkady Ostrovsky, «il power-broker mondiale», l’uomo dell’anno.
Più ancora di Angela Merkel, che, comunque, è proprio il leader mondiale che Putin rispetta di più. Anzi, la teme. Perché conosce i dossier come e meglio di lui (che pure è un pignolo). Perché lei parla russo (appreso nelle scuole della Germania comunista, dove la Merkel è cresciuta) meglio di come lui parla tedesco (imparato a Dresda, dove Putin è stato capo stazione del Kgb). Perché la Cancelliera sa rivolgersi a lui con il tono di una zia che redarguisce il nipote, e non ammette sotterfugi, neppure repliche. Significativo quello che accadde proprio a Milano, durante un multilaterale ristretto sull’Ucraina. Secondo un testimone, a Putin che menava il can per l’aia Angela Merkel si rivolse all’improvviso in russo, con una ramanzina che suonava più o meno così: «Vladimir Vladimirovic, basta con le chiacchiere. Io conosco gli accordi di Minsk e so che cosa è stato fatto e che cosa non è stato fatto».
Quel giorno il presidente russo era a metà del percorso di un clamoroso come back che lo ha portato alla fine del 2015 a essere, nel bene e nel male, l’uomo cui tutti guardano.
Ci sono tre elementi su cui si basa questo ritorno, suo e della Russia, sulla scena mondiale. Il primo è la sua personalità, la spietata impassibilità, che si traduce in un body language rigido perfino nella camminata. Putin è un giocatore di poker, che bluffa bene, ma soprattutto capisce i bluff degli altri. Nega sempre. In politica, come nel privato. L’invasione dell’Ucraina e l’annessione della Crimea sono tipiche operazioni di maskirovka, di camuffamento, una della grandi specialità dell’arte spionistica e militare russo-sovietica. La prima volta che fu applicata in grande stile fu nel 1983, durante la guerra civile in Libano, nella quale la Siria, già allora grande alleato dell’Urss, era molto coinvolta. Un importante contingente militare sovietico, mascherato da turisti in vacanza, fu trasportato in Siria con una nave da crociera sovietica (per una curiosa coincidenza denominata “Ukraina”), che passò indisturbata sotto gli occhi dei servizi della Nato. I “compagni turisti” di quella crociera sono i padri degli “uomini verdi”, in mimetica ma senza insegne che, nel febbraio del 2014, sono entrati in Ucraina e poi in Crimea, ma che il Cremlino ha sempre negato essere dei militari russi in servizio spacciandoli per milizie locali o addirittura per gang di motociclisti. E la scorsa estate, quando gli Stati Uniti hanno dichiarato che la Russia stava inviando materiale militare alla base aerea di Latakia in Siria, Mosca dichiarò che erano “aiuti umanitari”.
Negare, negare, anche l’evidenza. Anche sulla vita privata. Nessuno ha mai saputo se Putin abbia davvero divorziato dalla moglie Ljudmilla, una tipica matrona russa, ampia di vita e bionda di capelli, vestita con foggia sovietica (che ora vivrebbe in una villa milionaria a Pskov, vicino al confine con l’Estonia). Né se abbia mai sposato Alina Kabaeva, oro nella ginnastica artistica alle Olimpiadi di Atene del 2004, deputata alla Duma dal 2007; o se i due (secondo altre fonti perfino tre) bambini, che secondo alcuni sarebbero figli di Putin, siano invece, come asserisce la fulgida Alina, i nipotini di lei. Il quotidiano Moskovskij Korrespondent, che scrisse per primo della possibile tresca, fu chiuso dopo lo scoop. E il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, ha messo una pietra tombale sulle voci con una dichiarazione in perfetto stile sovietico: «Non ci sono donne nella vita del presidente. Basta dare un rapido sguardo alla sua agenda per comprendere che non c’è spazio per relazioni familiari nella sua vita».
Il secondo fattore del balzo in avanti di Putin è il gioco di squadra. La maggior parte del gruppo che ruota attorno a lui è costituita da ex ufficiali del Kgb. Ma non solo. La trojka che ha portato la Russia a ridiventare una superpotenza è composta, oltre che dallo stesso Putin, dal ministro della Difesa Sergej Shoigu, che ha tre anni di meno, e dal ministro degli Esteri Sergej Lavrov, che ne ha due di più. Shoigu è un fedelissimo del presidente, anche se è stato in tutti i governi russi dal 1990 a oggi. Lavrov è un diplomatico di carriera, di padre armeno, con grande esperienza del multilaterale (è stato per anni ambasciatore all’Onu). Putin è un fanatico dell’hockey, la sua squadra-mito è stata la Nazionale sovietica che vinse le Olimpiadi di Sapporo nel 1972. Lì la trojka d’attacco era Maltsev, Firsov e Kharlamov (li chiamavano “gli angeli del ghiaccio” per assonanza con gli “angeli dalla faccia sporca”, Maschio-Angiolillo-Sivori). Erano gli idoli di Putin, allora ventenne. L’anno scorso, il giorno del suo sessantatresimo compleanno, Sergej Shoigu gli portò l’ultimo briefing sui bombardamenti in Siria. Poi andarono a giocare a hockey con la squadra dei soliti amici. Putin segnò sette gol. Shoigu, saggiamente, uno.
Ultimo, ma non meno importante, elemento del ritorno della Russia di Putin è che, per decidere come muoversi sulla scena internazionale (ma anche su quella domestica, ovviamente), non deve confrontarsi con nessuna opposizione vera: né in Parlamento, che ha approvato l’intervento in Siria in cinque minuti, né nei media, soprattutto quelli televisivi, come abbiamo visto. E quelli che l’opposizione vera hanno provato a farla non se la passano bene: Khodorkhovskij, il magnate del petrolio, è in esilio dopo dieci anni di Siberia per una presunta frode fiscale; il blogger-avvocato Navalny passa la maggior parte del tempo agli arresti domiciliari. E l’omicidio di Boris Nemtsov, proprio sotto le mura del Cremlino, è ancora un mistero irrisolto.
Ecco perché bisogna di nuovo fare i conti con la Russia. E perché è più che mai di attualità la famosa definizione di Winston Churchill: «un mistero dentro un enigma». Anzi conviene leggerla per intero quella citazione che risale al 1939 per capire quanto sia pertinente alla Russia di Putin: «Non sono in grado di prevedere come si comporterà la Russia. È un indovinello avvolto in un mistero dentro un enigma. Ma forse c’è una chiave. La chiave è l’interesse nazionale russo». Esattamente quello che Putin persegue. E che lo rende così amato dai russi e così mal sopportato dagli occidentali. Che, dopo la caduta dell’Urss, si erano abituati male. O troppo bene.