Il Messaggero, 2 gennaio 2016
Confessioni di Maya Sansa, ora su Raiuno in “Tutto può succedere”
Maya Sansa è stata per molti anni figlia unica (finché non è arrivata una sorella che oggi è appena quattordicenne). Abituata a gestire la vita senza interferenze. Soprattutto senza raccontare troppo di sé, delle sue emozioni, nel timore che una volta dette non le appartengano più. In Tutto può succedere (intelligente adattamento italiano di Parenthood in onda su Raiuno, domani la terza puntata), invece, interpreta Sara, una trentottenne con tre fratelli e due figli che rivoluziona la sua esistenza tornando a casa dei genitori.
Con quella faccia intensa, lo sguardo liquido e nero, la pelle ambrata, Maya Sansa ha un fascino raro, particolare, mediterraneo eppure esotico (suo padre è iraniano, sua madre italiana) ed è una delle attrici più interessanti nel panorama internazionale, una di quelle che riconosci in una scena persino di spalle. Già nel 2004 il New York Times le dedicò una pagina ribattezzandola “la nuova icona” del cinema di casa nostra. E lei, in sedici anni di carriera, ha girato 32 film, da registi di rango come Marco Bellocchio (La balia, Buongiorno notte, Bella addormentata), Stefano Incerti, Carlo Mazzacurati, Jean-Paul Salomé, Giorgio Diritti, Gianni Amelio, Claude Miller. Con Marco Tullio Giordana ha interpretato La Meglio gioventù, Einstein con Liliana Cavani. E attualmente è sul set de La verità sta in cielo, sul caso di Manuela Orlandi, con la regia di Roberto Faenza, e con Riccardo Scamarcio.
Riservata, volitiva, curiosa, pronta a reinventarsi la vita, a lasciare Roma appena finito il Liceo per Londra, dove si diploma alla Guildhall School of Music and Drama, per poi tornare nella Capitale e andare alla conquista di Parigi dove vive da nove anni. Partenza è la sua parola chiave: «Significa ricerca dell’altro, di una cultura diversa, confronto, scoperta». Parla con fierezza, e quella timidezza gentile di chi riesce ad appropriarsi degli spazi senza bisogno di “dimostrare”, semplicemente essendoci.
La sua Sara in “Tutto può succedere”.
«Una ragazza un po’ scombinata eppure solare. Una che secondo il padre e i fratelli si sottovaluta, mentre invece non lo fa: è solo che è abituata a seguire un flusso che è solo suo. Una equilibrata nel suo squilibrio. Che cambia idea all’improvviso, come quando pensa che un uomo non le piaccia e poi invece ci finisce a letto».
Lei si considera una donna sicura?
«Forse, ma con tante insicurezze. Il mio compagno, lui sì che è saldo. Una roccia».
Il regista con cui ha avuto il rapporto più vero?
«Marco Bellocchio. Il nostro è un confronto così prezioso che potrebbe essere sminuito, banalizzato dalle parole. Ho avuto il privilegio di incontrarlo e lavorarci subito dopo Londra. Ed è stato artefice della mia formazione. Io ero abituata a recitare in teatro testi di Cecov, di Shakespeare: fantasmi... Con Bellocchio ero di fronte all’autore. Che mi parlava, mi diceva: “se senti di dover cambiare qualcosa, fallo”....».
Com’era da adolescente?
«In famiglia non sono mai stata ribelle. A scuola sicuramente. Ma con mia madre mai. Mi ha dato modo di sentirmi libera, forse anche perché è stata una mamma giovane, tra me e lei non ci sono nemmeno vent’anni di differenza. Quando le mie amiche uscivano il sabato sera perché non andare in discoteca le avrebbe fatte sentire sfigate, io mi permettevo il lusso di stare a casa con lei, una tipica donna giovane degli Anni 70 che, come mia nonna, mi ha sempre incoraggiata a credere nei sogni, ma anche a capire che l’indipendenza della donna è un valore e che non ci sono mariti che assicurano il futuro. È con lei che ho iniziato ad amare il cinema. Soprattutto quello americano, inglese, soprattutto quello di Lynch, di Ridley Scott. Poi, diventando adulta, ho visto il Neorealismo e la commedia italiana, da Rossellini a Risi passando per Germi e Monicelli e me ne sono innamorata».
Lei sta a Parigi. Come ci vive dopo gli attentati?
«Sono qui da nove anni, c’è nata mia figlia, il mio legame con Parigi è forte, ormai è la mia città ma, lo dico sempre anche ai miei amici francesi, Parigi è una città multietnica dove però non c’è integrazione. Pesa anche la crisi economica, soprattutto sui giovani, in particolare sui tanti di origini magrebine, che si sentono ancora più deboli e cercano qualcosa che gli dia forza, identità. Come vivo oggi? Con timore, soprattutto per mia figlia. Dopo l’attentato del 13 novembre mi sono sentita avvolgere da un’ombra nera. Mi sono venuti in mente gli Anni di Piombo, le Br che miravano a determinati obiettivi politici. Ma questo terrorismo è diverso. Spara nel mucchio. Come fece Ordine Nuovo con la strage di Bologna. L’Isis è spettacolare nella violenza. Destabilizzante. Subdolo. Adesso, quando entro in un negozio, in un caffé, la prima cosa che faccio è capire dove sia l’uscita di sicurezza, dove potrei nascondermi. Poi mi dico che la vita deve continuare e tento di cacciare indietro le paure. Tento...».
La cosa che per lei più conta?
«La libertà. La mia famiglia. Il mio lavoro. In una parola solo: la passione».