la Repubblica, 2 gennaio 2016
Il mestiere dell’allenatore spiegato da Donadoni
«Il modello Ferguson? In Italia ragioniamo diversamente, per ciclo duraturo parliamo di 3-5 anni», dice Roberto Donadoni, da fine ottobre allenatore di un Bologna che con lui in sella è decollato. Sette partite, 13 punti, per una squadra che con Delio Rossi in panchina ne aveva perse 8 su 10. «Qui c’è tutto per fare bene, partendo da un presidente come Saputo, la punta dell’iceberg. Il modo in cui sono stato accolto m’è piaciuto molto, ho trovato grande disponibilità da parte del gruppo. L’Emilia mi piace, Bologna è una città splendida, mi auguro di restare qui a lungo, ma è l’elasticità mentale che fa la differenza».
In che senso?
«Dipende tutto dalla nostra voglia di crescere sempre, di migliorarsi. Anno per anno. Se invece pensi di consolidare una situazione il rischio è che tutto si cristallizzi e allora è meglio cambiare. Per tutti, dal club al tecnico».
Crescere significa anche saper fare autocritica, a tutti i livelli.
«Quando analizziamo a video un gol subìto, è raro che qualche giocatore si assuma tutte le responsabilità, ti dicono sempre “sì ho sbagliato, ma prima…”. Che poi spesso è pure vero, il calcio è una concatenazione di eventi. Ma mica sempre: se un difensore a centro area su un cross è a tre metri dall’attaccante gli alibi non ci sono. Trovare chi dice “ho sbagliato” è difficile. Invece io lo trovo di una semplicità disarmante. Fai autocritica e tutto finisce lì, è un tipo di cultura che andrebbe incentivata, non solo nel calcio».
Un settore che non sta bene.
«Noi italiani dovremmo spogliarci del verbo, che siamo ancora convinti di incarnare. I tempi sono cambiati da un pezzo. Ma se ci limitiamo a dire: “Gli altri hanno più soldi e più mezzi” e la chiudiamo lì non cresciamo. Eppure a livello di diritti tv incassiamo tantissimo. Ricordo ai tempi del Mondiale del ’90, quando si parlava fra noi dei soldi che giravano, dei nostri contratti, già c’era la paura che il banco saltasse. A distanza di 25 anni, il banco non è saltato, ma è indubbio che debba e possa essere gestito in maniera diversa, perché questa strada non dà molte garanzie».
Ghirardi a Parma le disse mai come davvero stavano le cose?
«Ci penso ancora oggi. Mi sarebbe piaciuto se l’avesse fatto, l’avrei apprezzato. O forse nemmeno lui si rendeva conto della tragicità della situazione».
Cellino a Cagliari, a proposito di presidenti, fece causa a Sergio Buso sostenendo che non andasse al campo. Ma tutti sapevano che Sergio, che era malato, lavorava per lei dal letto d’ospedale.
«Eh…, quella è una bruttura, sì. Comportamenti così, dal punto di vista umano non dovrebbero mai venir fuori».
Da pochi giorni anche il Bologna s’è dotato di un drone. Lei l’usava già a Parma. Com’è cambiato il vostro lavoro?
«Bisogna adeguarsi ai tempi, a internet. Poi devi stare attento ai messaggi che mandi, in spogliatoio ti confronti con ragazzi di 17 anni e con altri che ne hanno venti di più. Avere equilibrio significa saper gestire i momenti».
Come Capello che certi insulti fingeva di non sentirli?
«A volte lo fai, perché devi anche essere psicologo. Non puoi trattarli tutti allo stesso modo, ma non puoi andare a scapito del gruppo per privilegiare qualcuno».
Le esclusioni le motiva?
«Può capitare, ma se lo fai sempre rischi d’essere ripetitivo, tutti non possono giocare e certe frasi ti si possono ritorcere contro. Come dico spesso io, meglio essere padroni dei propri silenzi che schiavi delle proprie parole».
Lei passa per uno decisamente ferreo. Il cellulare quando pretende che sia spento?
«Dentro lo spogliatoio voglio che non si usi. Mi piace che i ragazzi abbiano il gusto di stare insieme, nelle 2-3 ore che si frequentano, non che diventino degli automi fissi sui loro aggeggi tecnologici».
La tecnologia però in campo aiuta. Ormai anzi domina.
«In realtà c’era già ai tempi di Sacchi, forse anche prima. Ma l’uso era meno esasperato».
Quanto le ha dato Sacchi?
«Aveva grandissime conoscenze, mise molta carne al fuoco, fu molto bravo a creare i presupposti perché quel Milan scalasse il mondo. Anche Capello trasse molti vantaggi dalle nozioni che ci aveva trasmesso Arrigo. E Fabio fu bravissimo a capire i momenti, quando c’era da accelerare e quando invece da sollevare il piede dal gas. Aveva qualità umane che mi piacevano molto. E quel Milan che era dato sul viale del tramonto vinse più di prima».
Dopo Bologna andrà all’estero?
«L’idea m’attira. Potessi tornare indietro anticiperei le mie esperienze negli Stati Uniti e in Arabia Saudita. Confrontarsi con altre realtà aiuta sempre».
Anche se questo non è un momento semplicissimo. Lei da cattolico come lo vive?
«Credo che prima di tutto, anche delle religioni, ci sia l’uomo. Ho vissuto sei mesi in Arabia, fu un’esperienza molto positiva, ma c’erano cose che facevo fatica a comprendere. Ricordo quando andammo a giocare a La Mecca. Tutta la squadra in pullman, ma io non potei salire, perché ero considerato un infedele. Un atteggiamento che mi toccò profondamente. Dico, se io volessi diventare musulmano avrei bisogno di conoscere la loro realtà, ma se non mi è permesso di entrare in città, di conoscere la loro religione, qualcosa non torna