la Repubblica, 2 gennaio 2016
Il Macbeth di Fassbender, come un soldato in Iraq
Sotto la fredda patina grigio chiara, lo sguardo di Michael Fassbender è un ribollire d’emozioni. Tedesco d’Irlanda, ha costruito in pochi anni una solida carriera incanalando nel cinema un temperamento che è lava fusa. Fuori dal set c’è una vita sentimentale piuttosto turbolenta con un turnover di fidanzate giovani e famose, da Zoe Kravitz ad Alicia Vikander. Ma quando si parla di lavoro l’attore è l’incarnazione della disciplina. Si presenta all’incontro in jeans e giubbino da biker, anche se il tempo della moto è passato: «L’ho regalata a mio padre. Durante gli ultimi viaggi non faceva che dirmi quanto la mia fosse migliore della sua. Così ho capito l’antifona “se vuoi puoi prenderla”. Non ho fatto in tempo a finire la frase che aveva dato via la sua. Così io non ce l’ho più. Ma ne comprerò un’altra, sogno un viaggio in Sudamerica». L’Europa la conosce bene, l’Italia l’ha percorsa per tornare dalla Mostra di Venezia (con il padre) in cui aveva vinto la Coppa Volpi per il ruolo di sessuomane in Shame di Steve McQueen. Un ruolo pieno di nudi, anche frontali. Cosa non rara, per lui. «Se seguissimo la giornata di una persona qualunque ci imbatteremmo in momenti in cui si toglie i vestiti. Fa parte della vita. E, per quanto mi riguarda, fa parte dei copioni».
Per interpretare Bobby Sands in “Hunger” perse 15 chili. Lei è un attore fisico.
«Sì. Per entrare nel personaggio parto sempre dal corpo. Dai movimenti, dalla postura, dal modo di camminare. È questa la mia chiave. Non sono certo un attore analitico, intellettuale, no».
Non manca di ambizione: ora si cimenta nel “Macbeth” di Justin Kurzel, in sala il prossimo martedì.
«Anche stavolta il mio approccio è stato fisico. Ambientale, direi. Per entrare nell’animo di Macbeth è bastato esporsi a quel clima, in Scozia: il freddo, la pioggia che cadeva ininterrotta. È stata una prova forte. Per me ma anche per la troupe e le comparse che stoicamente stavano ferme dieci ore sotto l’acqua. Ogni sera temevo che il giorno dopo non tornassero, e poi invece al mattino eccole di nuovo lì».
“Macbeth” è stato portato sullo schermo da maestri come Orson Welles e Akira Kurosawa.
«La versione di Kurosawa è quella che preferisco. Ma la nostra è molto diversa».
Moderna?
«Sì. Ho incontrato la prima volta Macbeth alla scuola di Killany, l’ho letto come un personaggio da romanzo. Poi, quando studiavo recitazione a Londra, ho fatto un lavoro per il mio insegnante. Ma solo leggendo il copione di Kurzel l’ho finalmente compreso. È un soldato affetto da stress post traumatico. Proprio come chi oggi va a combattere in Iraq. E a capirlo era stato lo stesso Shakespeare, secoli fa. Lo fa dire a Lady Macbeth nella scena del banchetto: “Sappiamo che lui soffre di questi attacchi, di queste allucinazioni, queste cose le ha già fatte”. Questa chiave mi ha regalato sicurezza: sono partito dalle fratture emotive precedenti: è solo nell’uccidere che trova la sua direzione. Ma anche Lady Macbeth di Marion Cotillard è stupenda. Non è una megera ambiziosa ma una donna che si sacrifica perché lei e il suo uomo si ritrovino dopo la morte del figlio. È un racconto sulla perdita e su quello che le persone arrivano a fare per riavere indietro quel che hanno perso».
È anche un racconto sulla corruzione del potere. Lei teme quella del successo?
«Per ora riesco a gestirlo con semplicità. Vedo più pericoli nel non riuscire a fare le cose, o a farle nel modo che vorrei. Il pericolo in questa industria è metterti in progetti che non ti appassionano. Io devo sentire che imparo sempre qualcosa, non voglio fare le cose per soldi. Di sicuro certi stili di vita che si accompagnano alla fama sono piuttosto seduttivi e perciò poi diventa difficile rinunciarvi. Ma io cerco di andare avanti».
Qual è la qualità più importante in un attore?
«La capacità di sapersi rilassare. Se ti rilassi ti regali la possibilità di capire, di essere consapevole di quel che succede intorno a te. E ascolti, che è la parte più importante”.
Rimpianti?
«Non mi piaccio sempre. In The counselor di Ridley Scott avrei potuto fare meglio».
Il suo idolo?
«Il primo e più importante è stato Quentin Tarantino. Sono cresciuto nelle campagne irlandesi, piene di boschi bellissimi e posti in cui pescare. Ma a un certo punto ho deciso di scavalcare il bancone del pub di famiglia a Killarney e ho capito che volevo fare l’attore. Avevo diciassette anni, e ho portato a teatro
Le iene. Quando poi ho fatto l’audizione con Tarantino e mi ha preso in Bastardi senza gloria è stato uno dei miei giorni migliori».
Com’è stato portare sullo schermo Steve Jobs (in sala il 21 gennaio)? Ha detto che si è ispirato a “Quarto potere”.
«Me lo ha suggerito Danny Boyle. Di quel copione mi spaventava la quantità di parole. Ma era scritto benissimo. Considero Aaron Sorkin lo Shakespeare dei nostri giorni. E mi piaceva l’idea di interpretare un personaggio controverso. Dentro tutti noi c’è la capacità di cose belle ma anche terribili».
Porta mai a casa qualcuno dei suoi personaggi?
«Scherza? Nessuno vuole passare una serata con un attore che medita sulle sofferenza. No. Stacco la spina. E mi piace festeggiare. Quando, dopo tante porte in faccia, Mc-Queen mi scelse per Hunger corsi con la moto a brindare. Fu bellissimo. E avevo ancora la moto».