la Repubblica, 2 gennaio 2016
Le rinunce di Ascanio Celestini
«Quello che mi aspetto da questo 2016? E che farò in modo che accada? Beh, una cosa completamente fuori dall’ordinario. Ritagliarmi un bel po’ di tempo fuori dal lavoro. Mi fermerò per diversi mesi. Nella professione che faccio senza mai un attimo di sosta da 20 anni è impossibile far convivere il mestiere e il piacere. Voglio dire, quando leggo, vado al cinema o a teatro lo faccio sempre e solo per una ricerca sul campo, per consultare una materia nella quale io stesso opero, creo. Come se un montatore che va a vedere un film pensasse solo al montaggio e non alle emozioni che produce il film». Ascanio Celestini, strenuo artista della narrazione nel mondo italiano dei monologhi infiniti, portavoce fisiologico delle vittime della società, all’alba di questo nuovo anno auspica un mutamento di rotta clamoroso, s’abbandona a un coming out anti- stress inimmaginabile, fondamentale. «Dopo due decenni di laboriose catene di montaggio editoriali, sceniche e cinematografiche ho quasi di colpo realizzato tutto».
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FOTO © ELISABETTA A. VILLA GETTY IMAGE A TEATRO
Ascanio Celestini in scena nel suo ultimo spettacolo, dedicato alla cagnetta Laika
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“Per il lavoro ho rinunciato alla vita vera”
«HO preso meglio coscienza, ora, ad esempio, che il mio attuale spettacolo
Laika racconta quasi la stessa storia del mio film Viva la sposa.
Se le riprese del set sono state interamente girate al Quadraro, zona di Roma cui associo la storia di mio padre e della mia famiglia, anche il racconto dal vivo mette in gioco la medesima periferia, personaggi simili. Per il futuro ho bisogno di una pausa, e devo cercare di scindere i miei racconti dalla mia vita».
Importante, per uno come Celestini, affidare al 2016 questo ruolo di voltapagina dell’esistenza, delle pratiche della fantasia. E assolutamente insolito, ascoltargli propositi che collocano il suo privato a un livello più decisivo dell’impegno pubblico. «Succede questo. Che trasferendo tutti i propri fantasmi nella scrittura si rischia di risolvere questioni solo a livello letterario. Ma io in vent’anni ho avuto due figli, cui di questo passo rischio di distogliere la figura del padre, un padre sempre in giro, in tournée, o a scrivere. E invece nel 2016 voglio anche essere un genitore ingombrante e quotidiano, uno che tutte le mattine convince i figli a lavarsi, li spinge a fare colazione, la sera li mette a letto. Non mi dispiace l’idea d’essere un padre che, agendo faccia a faccia, raccomanda cose noiose a Ettore che ha nove anni e ad Agata che ha due anni e mezzo, anziché sentire la famiglia su Skype dove ti viene riportata l’eccezione, la recita scolastica, un malanno, ma non condividi il corso quotidiano dei fatti. Ecco perché il 2016 dovrà essere un anno diverso».
Pronosticare un anno di sabbatico dalla routine del mestiere è salvaguardare l’intimità dei legami domestici, ma c’è altro. «Ad essere sincero, credo che a lungo andare l’autobiografismo non sia soltanto un limite ma anche un alibi. È come se l’artista mandi a dire “quando giudicate il mio lavoro state giudicando me”. Io vorrei non lasciarmi andare a un meccanismo del genere, non dare al pubblico l’impressione che si troverà di fronte a una biografia a puntate. Non mi va più di essere al centro delle mie storie. Intendiamoci, è già successo che io fossi solo un testimone, con gli spettacoli sulla fabbrica, sul manicomio».
Per la prima volta, dopo anni e anni di impegno organico, Celestini butta giù il diario di una sua giornata ideale prossima futura. «Ci si sveglia assieme, preparazione per l’andata a scuola, una passeggiata pomeridiana, avere del tempo-in-cui-non-fai-nulla, (mai isolarsi in una lettura o peggio davanti alla tv), trovare l’occasione per fare a casa la pizza o soprattutto la pasta, e giocare, senza gareggiare. Rodari sostiene che il gioco per i bambini è un’azione che produce sempre qualcosa».
L’artista Celestini si scopre disposto a fare più conti con la normalità. «Vorrei, perché no, programmare le vacanze al mare, senza sfruttare solo i ritagli dal lavoro. Quando, in giro per spettacoli, certi giornali locali mi fanno domande sul territorio, mi rendo conto che ho pochi rapporti. Conosco bene teatri, autogrill e ristoranti aperti fino a tardi, alberghi, b&b, il pesce alla trattoria Mocambo di Fano, e a Firenze so più degli ospedali psichiatrici che degli Uffizi e del Duomo. Io conosco l’umanità e la bellezza attraverso storie minime personali, senza mappe visitate di persona. Vivo di lavoro, più che di vita vera». Un rimedio cui pensa per il 2016 è la distanza. «I benefici della distanza (da me) li ho conosciuti già a cominciare da tre anni fa, dirigendo l’attore belga David Murgia nel mio Discorso alla nazione, e un’altra prova l’ho avuta con la regia per un attore francese che a Parigi s’è impegnato nel mio
Laika proprio nei giorni della tragedia di Charlie Hebdo». Gli domando cosa vorrebbe che accadesse, idealmente, nel 2016. «Rispetto ai fatti e ai fenomeni clamorosi, resto stupito che molte persone commentino cose che non conoscono e prendano posizione solo sulla base di notizie. Noi parliamo dell’Islam quando si spara a Parigi, degli immigrati quando muoiono, e se una realtà non diventa notizia è come se non avesse la patente per essere commentata, col pericolo che poi finiamo per ripetere solo ciò che ci viene detto. E vorrei che contro la crisi sorgessero nuovi teatri, che sono forme di presidio sociale ed economico». Accanto agli orizzonti etici che gli conosciamo, coltiva desideri meno noti. «Vorrei ordinare e arricchire il mio archivio di registrazioni. Alimentare la mia collezione di tazzine di caffè (ne ho una quantità smisurata, col marchio dei produttori, che chiedo in regalo nei bar). Trovare più tempo per tagliare l’erba del mio giardino. Rendere sempre più ecosostenibile la mia casa, con corrente già tutta fornita da pannelli fotovoltaici. Dedicarmi anche di più alla coltura di pero, nespolo, gelso bianco, prugno, ciliegio, mirto, fragole, pomodori, more, goji».
E c’è un sogno che vorrebbe assolutamente realizzare nel 2016, di cui i suoi estimatori non hanno idea. «Se ci riesco, metto in cantiere un libro di barzellette. Ogni tanto a teatro ne racconto. È un caso di letteratura orale che in genere mantiene un’esclusiva forma parlata. Per bambini, adulti, uomini. C’è dentro a volte il peggio delle nostre visioni contro ebrei, zingari, immigrati, carabinieri, omosessuali, esponenti di certe professioni. Non voglio pubblicare un prontuario di barzellette, ma farne uno studio antropologico. Il filosofo Slavoj Zizek cita una barzelletta sulla guerra fredda in Cecoslovacchia e praticamente c’è il corrispettivo nell’umorismo sardo. Come le parentele nelle fiabe, senza distinguo di popoli e di frontiere».
Prima che ci si saluti, gli chiediamo cosa altro, seriamente o no, s’augura in questi dodici mesi. «Che finiscano guerre e sfruttamenti (ma non penso sia una prospettiva realistica). Che non cambi il mondo, perché si abbia più consapevolezza del mondo in cui viviamo. Che se ne vada in pensione il mio vecchio furgone perché ci piove dentro, è un Ducato rosso, un personaggio di Viva la sposa». Gli hanno riparato da poco il suo scooter a tre ruote, e col buon tempo torna in sella. «L’alternativa è la bicicletta piazzata dentro il furgone che, partendo da Morena dove abito, posteggio all’inizio della città, per proseguire pedalando. La bici me la regalò mio padre quando avevo 13 anni, trent’anni fa». È ricaduto in una lieve tentazione autobiografica, sorridendo, per un attimo. Gli riesce bene. Anche se si vuole affrancare dai racconti di vita vissuta.