La Stampa, 2 gennaio 2016
Jennifer Jason-Leigh, tutta contenta di prendere pugni nel film di Tarantino
Jennifer Jason-Leigh è una maschera di sangue. Tumefatta, picchiata come un pungiball, sdentata con brandelli di materiale altrui appiccicati addosso. Qualcuno ha voluto leggerci un segno di misoginia applicata dal regista Quentin Tarantino all’unica interprete femminile del film The Hateful Eight, uscito in America il giorno di Natale (in Italia il 4 febbraio con 01 Distribution, importato da Leone Group). Un western thriller che schiera un cast di divi come Kurt Russell, Tim Roth, Samuel L. Jackson, Michael Madsen, Bruce Dern e Jennifer, 53 anni portati da quarantenne. Lei (Coppa Volpi per America Oggi nel ’93) è arrivata al Capri Hollywood, la manifestazione che si svolge in questi giorni sull’isola azzurra, interrompendo il tour promozionale americano per presenziare alla proiezione straordinaria caprese, da desiderio del produttore Harvey Weinstein che reputa questo festival essenziale e benaugurante.
Un ruolo che ha portato l’attrice alla candidatura ai Golden Globe (viatico per le nomination all’Oscar) mentre già si prepara per essere la moglie del presidente Johnson in LBJ di Joey Hartstone
Qui si gode sole, spaghetti e la sua splendida forma. Ma quanto è stato brutto diventare un mostro per esigenze di set?
«Un piacere se si fa per Tarantino. Figuriamoci che sono stata anche contenta di prendere le botte. Qui sono la fuggitiva Daisy Domerque, prigioniera del cacciatore di taglie interpretato da Russell che vuole assicurarmi alla giustizia. Però la diligenza sulla quale viaggiamo si ferma per una tempesta di neve nel Wyoming e da lì... Giù botte. É una donna furba che lotta per sopravvivere, disposta a tutto per riuscirci, una pazza odiosa come tutti i personaggi del film».
Si è fatta male?
«Ne ero terrorizzata e Russell, che mi picchiava in continuazione, era ancora più teso di me. Quentin ci chiedeva aderenza assoluta alla verità, spontaneità, anche a costo di cambiare qualche battuta, dunque temevo che potesse sfuggirgli la mano. Poi abbiamo deciso di girare quelle scene come fossero una danza. Mi sono fidata, è andata bene e ci siamo divertiti da pazzi».
Come si è preparata al ruolo e come l’ha conquistato?
«Urlando sono diventata Daisy. A lui è piaciuto come gridavo. Poi Tarantino mi ha fatto vedere Il Grande silenzio, western ambientato sulla neve di Sergio Corbucci, e tutti i film di Sergio Leone di cui è un appassionato, infatti In The Hateful Eigh ha rielaborato la sua poetica. Anche le musiche sono di Ennio Morricone».
Un film speciale per tanti motivi.
«Anche per la tecnica usata che mi ha portato indietro nel tempo. Abbiamo girato con la pellicola 70 millimetri anziché 35 che permette di impressionare un fotogramma più grande regalando maggiore definizione alle immagini. Ma è carissima perciò noi stavamo molto attenti a non sbagliare. Ma Quentin ci stava vicino anche fisicamente, non è regista da stare dietro il monitor, ti segue passo passo e alla fine della scena puoi anche stringergli la mano. Questo ti porta ad abbandonarti, perciò a sbagliare anche di meno».
Lei è l’unica donna del film e questo ha regalato al regista un’accusa tutta americana di misoginia. C’è del vero?
«Ma figuriamoci, è un’assoluta follia detta da chi non ha mai lavorato con lui. Tarantino adora le donne e lo dimostra costruendo i ruoli femminili, anche i più piccoli in modo perfetto e mai che siano solo decorativi. Lo ha dimostrato in tanti film, pensate alla sposa di Kill Bill. Nel mio caso Daisy è una donna forte, mai vittima degli uomini, si batte da pari a pari con loro ed è decisamente una leader».