La Stampa, 2 gennaio 2016
Dopo quarant’anni ha salpato la prima nave cisterna di petrolio Usa destinato all’esportazione
Il 31 dicembre 2015, al porto di Corpus Christi in Texas, si è scritta la storia. Dallo scalo marittimo commerciale a circa 250 chilometri a nord del confine col Messico ha salpato la prima nave cisterna di greggio destinato all’esportazione. Si tratta della «Theo T» battente bandiera delle Bahamas, carica di petrolio di Conoco Phillips e Nustar Energy estratto dal giacimento Eagle Ford Shale, nel sud del Texas.
Il greggio della nave cisterna è destinato a essere acquistato da Vitol Group, colosso olandese di trading petrolifero, proprietario di una raffineria in Svizzera, uno degli operatori più interessati alla liberalizzazione della vendita all’estero dell’oro nero Usa. A lei sarà destinato anche il carico di proprietà di Enterprise Products Partner che salperà dal porto di Houston entro la fine della prima settimana di gennaio.
L’embargo degli arabi
È questo il primo atto del nuovo capitolo scritto da Barack Obama con la legge che elimina il quarantennale divieto di esportazione di greggio adottato negli Anni 70 in risposta alla crisi petrolifera. Fu l’embargo di petrolio dei produttori arabi a costringere l’amministrazione Usa a ricorrere a misure di austerity e di razionamento del greggio, anche per far fronte all’aumento del costo dei carburanti. Da allora sono passati quattro decenni, crisi, rivoluzioni e conflitti, e il quadro geopolitico ed energetico è radicalmente mutato. Sul prezzo del petrolio, dopo i picchi a quota 145 dollari iniziati nel nuovo millennio e accelerati con la guerra in Iraq e le tensioni internazionali, hanno fatto seguito le oscillazioni causate dalla peggiore crisi finanziaria dai tempi della Grande recessione. Quindi la contrazione e la risalita, sino ad arrivare alla caduta libera dello scorso anno, quando il prezzo del barile di «crude», il greggio scambiato sul mercato Usa, è precipitato a quota 50 dollari.
Nel 2015 la caduta è proseguita con ulteriore flessione del 30% a 37,04 dollari del barile di «crude», raggiunto da quelle del «brent», il greggio del Mare del nord quotato sui futures dei mercati europei a quota 37,28 dollari. La massiccia produzione di petrolio «shale», ottenuto dalle argille, da parte degli Stati Uniti ha causato un eccesso di offerta a livello globale, aggravato dalla scelta di Paesi produttori come Arabia Saudita e Russia di mantenere l’output complessivo a livelli elevati. «Lo shale ha radicalmente cambiato il quadro complessivo del mercato del greggio – spiega Tariq Zahir, esperto di Tyche Capital Advisor -. Per il 2016 il livello dei prezzi rimarrà debole a lungo».
La Us Energy Information Administration ha rivisto al rialzo le quote di produzione dei primi nove mesi del 2015 giunte a 9,7 milioni di barili in aprile, il massimo degli ultimi 44 anni.
Indipendenza energetica
Un output che ha reso possibile all’amministrazione Usa di procedere sul cammino dell’indipendenza energetica fortemente voluto da Barak Obama e al contempo di eliminare il divieto all’esportazione di greggio attuato ai tempi della grande crisi petrolifera del 1973. Una sorta di rovesciamento della geopolitica del petrolio, così il mini-barile che ha causato un effetto domino sui mercati finanziari con le contrazioni dei ricavi di diversi Paesi emergenti, grandi produttori di petrolio, aggravato anche dal calo della domanda della Cina dovuto alle incertezze finanziarie di questa estate.
A tremare sono anche realtà considerate solide come la ricca Arabia Saudita, costretta per il 2016 a varare misure draconiane per contrastare la contrazione del Pil e l’aumento del deficit. È previsto l’aumento della benzina sino al 66%, tagli sulla spesa, aumenti delle aliquote tributarie e provvedimenti per fronteggiare la diminuzione dei ricavi di quell’oro nero, che rischia di indebolire Riad non solo sul piano economico ma anche politico-strategico in particolare sullo scacchiere della polveriera mediorientale.