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 2016  gennaio 02 Sabato calendario

Passano tutti per l’Albania i jihadisti europei

Sconosciuta ai più, l’esplosione di fervori jihadisti tra le popolazioni di lingua albanese suscita crescenti preoccupazioni tra le agenzie anti-terrorismo europee, americane e mediorientali.
Network jihadisti albanesi capeggiati da carismatici imam reclutano tra le comunità della diaspora albanese d’Europa, Italia inclusa. Il Kosovo ha il numero più alto d’Europa di foreign fighters in Siria rapportato alla popolazione. E jihadisti di etnia albanese ricoprono alte cariche tra le milizie del califfo al Baghdadi.
La fine del comunismo
Nonostante il Sud-Ovest dei Balcani sia da sempre terra di un islam moderato e laico, il problema traccia le sue radici agli Anni 90. Con la fine del comunismo – sotto il quale l’islam in Albania, unica nazione al mondo dichiaratasi ufficialmente atea, era pressoché sparito – i Balcani divennero terra di conquista del proselitismo di matrice wahabita. Inizialmente arrivati per fornire aiuti umanitari durante i sanguinosi conflitti dell’epoca, enti benefici e religiosi sauditi (World Assembly of Muslim Youth), kuwaitiani (Revival of Islamic Heritage Society) e di altri Paesi del Golfo crearono un network di moschee, centri studi e ong il cui vero obiettivo era quello di diffondere un’interpretazione ultra-letterale e militante dell’islam alle popolazioni locali. Forti dei petrodollari cominciarono a ottenere consensi tra i più giovani, afflitti da disoccupazione e povertà, e spesso attratti sia dal forte messaggio del wahabismo che dalle opportunità che queste organizzazioni offrivano.
Una nuova generazione di imam balcanici si è formata grazie a generose borse di studio nelle scuole più fondamentaliste della penisola araba. E, una volta ritornati in patria, hanno trovato nuove moschee costruite con soldi del Golfo (100 costruite in appena 10 anni solo nel piccolo Kosovo) dal cui pulpito diffondere il veleno jihadista.
Venti anni dopo, la mobilitazione per la Siria mette in luce il prodotto di queste dinamiche. I foreign fighters di etnia albanese, tutti militanti con lo Stato Islamico o Jabhat al Nusra, sono circa 1000 (900 dal Kosovo per le forze Kfor della Nato, 150 dall’Albania e una cinquantina dalla minoranza albanese in Macedonia). I loro network sono sofisticati, spesso intrecciati a quelli della potente criminalità organizzata locale. Sono cellule operanti a livello locale, ben finanziate e armate, con forti legami familiari interni che ne rendono difficile la penetrazione. Le forze dell’ordine locali, spesso prive di mezzi e accusate di corruzione, fanno quello che possono e l’Albania è molto più efficiente di Kosovo e Macedonia.
Nonostante questi problemi negli ultimi tempi alcune inchieste hanno alzato il velo sui network jihadisti locali. Nel marzo 2014 le autorità di Tirana hanno smantellato un sofisticato network dedito alla propaganda e al reclutamento, guidato da due imam, Bujar Hysa e Genci Balla. Tra i loro collaboratori, vari affiliati dello Stato Islamico specializzati nel far passare aspiranti jihadisti dall’Europa alla Siria.

I legami con l’Italia

E alcuni di essi, incluso Hysa stesso, hanno forti legami con l’Italia. La pista balcanica, infatti, arriva direttamente a casa nostra. Le nostre unità anti-terrorismo monitorano gli ambienti fondamentalisti balcanici, consapevoli della loro pericolosità operativa. Fino al punto da temere che l’Albania diventi quello che il Belgio è per la Francia: la retrovia logistica da dove pianificare attacchi.

«Le agenzie di viaggio»

Imam radicali albanesi come Shefqet Krasniqi della grande moschea di Pristina, ora sotto inchiesta in Kosovo, passano spesso nelle nostre moschee per recitare i loro sermoni. E più indagini recenti hanno dimostrato come i network albanesi presenti nel Centro-Nord siano tra i più attivi nel reclutamento per la Siria, non solo tra i connazionali ma fungendo anche da «agenzia di viaggio» per giovani nordafricani e convertiti italiani che altrimenti non troverebbero l’aggancio giusto per unirsi allo Stato Islamico.
Era infatti albanese la pista che consentì ad Anas el Abboubi, adolescente bresciano di origine marocchina, di lasciare l’Italia dopo essere stato rilasciato dal tribunale del riesame e divenire uno dei primi foreign fighters nostrani. L’inchiesta bresciana aveva svelato una sofisticata rete basata in Albania, ma con propaggini in Lazio e Piemonte. Figura centrale di quel network era Lavdrim Muhaxheri, ex dipendente della Nato in Kosovo che si era unito allo Stato Islamico e che assurse a star mediatica nella galassia jihadista per video in cui appariva con teste mozzate di soldati siriani. Ed era albanese anche il network che ha reclutato la convertita parteno-brianzola Maria Giulia Sergio, che ora vive nel Califfato insieme al marito, l’albanese Aldo Kobuzi.
L’Islam «made in Albania» rimane un modello di tolleranza. Ma venti anni di propaganda estremista hanno attratto una parte di musulmani albanesi, siano essi nei Balcani o nelle varie diaspore, generando un nuovo fronte di rischi per il nostro Paese.