Corriere della Sera, 2 gennaio 2016
Il reportage di Mika tra i profughi siriani
«Di dove sei?».
Più passano gli anni e più questa semplicissima domanda che chiunque potrebbe farmi diventa una delle più complicate a cui rispondere.
Non vengo da un solo posto in particolare e neppure incarno una sola cultura. La mia eredità è costituita dalla mitologia della mia famiglia, dei miei nonni e dei parenti le cui vite e culture non hanno quasi alcun rapporto con il mio vivere oggi.
Mio nonno siriano che ha lasciato Damasco con tutti i suoi averi sul dorso di un asino, mia nonna libanese che ha incontrato il suo futuro marito quando lei aveva 16 anni e lui 58, mentre facevano sci d’acqua al largo della Corniche di Beirut; mia nonna inglese, una dolorosamente elegante «Figlia della Rivoluzione» di estrazione Wasp che ha sposato un persuasivo diplomatico nato a Savannah, in Georgia, per poi dare alla luce un figlio, mio padre, a Gerusalemme e crescerlo tra Il Cairo e Roma.
Sono nato a Beirut durante la guerra civile nel 1983. Poco dopo, io e la mia famiglia siamo stati evacuati a Cipro e alla fine sono cresciuto in una comunità libanese a Parigi, dove la cultura e la mitologia del Libano aleggiavano nell’aria e hanno permeato ogni aspetto della nostra vita quotidiana. Ero un ragazzo che frequentava una scuola privata francese, avevo un aspetto americano, ma gli occhi libanesi e una casa libanese: dai tappeti sui pavimenti al cibo nei piatti, alle amicizie che i miei genitori avevano conservato. Un accento parigino e la mia pelle chiara mi avevano comunque permesso di vivere i primi anni della mia vita inconsapevole del senso di differenza culturale e ignaro della guerra e della distruzione da cui la nostra famiglia era fuggita.
Fu il pessimo tempismo di uno dei viaggi di lavoro di mio padre a destabilizzare la nostra tranquillità familiare, cancellando quei piaceri infantili che fino ad allora erano stati un lusso. Essendo stato mandato per tre giorni in Kuwait, mio padre si trovò nel mezzo del conflitto della Prima Guerra del Golfo e fu tenuto in ostaggio nell’ambasciata americana per otto mesi. Per la prima volta toccai con mano come la guerra potesse essere crudele e come la distanza fisica da un conflitto lontano potesse ridurre l’empatia e isolare le persone coinvolte. Vivevamo due vite parallele: a scuola eravamo, io e i miei fratelli, bambini parigini, a casa invece eravamo in guerra e stavamo perdendo tutto quello che possedevamo. Mai più avrei dimenticato la sensazione di avere la vita sconvolta da qualcosa che non puoi controllare.
Nella mia vita adulta la parte libanese del mio patrimonio culturale non è mai venuta meno. Nel 2008 ho tenuto per la prima volta un concerto a Beirut, in piazza dei Martiri, luogo tristemente noto per essere stato parte della Green Line, una «no man’s zone» che separava la parte est da quella ovest di Beirut durante la guerra. Da allora ci sono tornato molte altre volte, sentendomi orgogliosamente connesso al Libano e al tempo stesso orgoglioso di essere un immigrato, in tutto e per tutto simile a tanti altri nel mondo.
Negli ultimi anni ho osservato da lontano lo svolgersi della crisi in Siria. Per alcuni giorni, poco prima di Natale, mi sono unito all’Unhcr per essere testimone diretto della crisi dei rifugiati siriani che si è sviluppata in Libano. È difficile immaginare come sia la vita per quel milione e centomila rifugiati, per gli operatori delle organizzazioni che hanno lo scopo di aiutarli e per i libanesi stessi che hanno aperto le porte delle loro case ai milioni di persone in fuga dalla distruzione e dal terrore. Volevo aprire gli occhi, umanizzare qualcosa che da lontano era diventato solo un dato statistico e una fonte di dibattito. Avevo bisogno di annullare le distanze. Niente avrebbe potuto prepararmi per quello che ho visto e per le storie che ho sentito.