Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2016
Qual è il reale stato delle banche italiane e che 2016 le aspetta
Secondo la presidente della banca centrale americana l’anno che verrà segnerà l’inizio del ritorno alla normalità, anche se in forma nuova: il “new normal”, appunto. Sarà così anche per quelle italiane? Per la verità, il 2015 non è stato un anno facile e soprattutto si è chiuso all’insegna delle roventi polemiche intorno al coinvolgimento dei risparmiatori nel dissesto di quattro banche di provincia. Una vicenda che è la prova più lampante di quanto sia irta di ostacoli la strada che porta a superare la crisi, ma che soprattutto dimostra che è necessario lasciarsi definitivamente alle spalle i punti di debolezza del nostro sistema, che fortunatamente non sono molti.
Astraendo per il momento dalle recenti vicende, si può dire che il 2016 è destinato a confermare alcuni elementi di robustezza delle banche italiane, in particolare sotto il profilo della dotazione di capitale. Come ha ricordato recentemente il responsabile della vigilanza, Carmelo Barbagallo, le banche italiane hanno aumentato il patrimonio di ben 50 miliardi dal 2008 ad oggi e si presentano con le carte in regola nel confronto internazionale.
La crisi ha però comportato due costi pesanti: in primo luogo, l’aumento dei crediti di dubbia qualità, trascinato dalla più grave recessione che l’economia italiana abbia mai attraversato. L’effetto netto è che ancora nel 2015 le rettifiche sui crediti hanno assorbito oltre il 50 per cento dei profitti lordi. Come non bastasse, le banche hanno dovuto subire un secondo fiero colpo: la riduzione della redditività di base, cioè del margine di interesse, depresso – in Italia come altrove – dal basso livello dei tassi di mercato.
In queste condizioni raggiungere nell’anno in corso, sempre a livello di sistema, utili netti positivi e redditività del capitale intorno al 5 per cento (dati dell’ultimo Rapporto Banca d’Italia sulla stabilità finanziaria) appare come un risultato di tutto rispetto.
Il “new normal” non sarà comunque facile. Soprattutto per le banche europee e per quelle italiane, ci sarà molto di “new” e poco di “normal”. Il dato più positivo è che la ripresa è ormai avviata, sia pure fra mille incertezze, e che questa riporta verso l’alto anche il tasso di crescita dei principali indicatori dell’attività bancaria: i depositi e i prestiti. Per questi ultimi il rapporto Prometeia di ottobre scorso prevede un aumento del 3 per circa all’anno nel prossimo biennio dei prestiti, il che significa lasciarsi definitivamente alle spalle il periodo nero del credit crunch. Tassi modesti di crescita, si dirà, ma è il segno che nello scenario di medio termine, non solo italiano, sarà difficile vedere i prestiti bancari crescere a livelli significativamente superiori al pil nominale.
Non basta questo per colorare a tinte rosee il 2016. Il problema fondamentale è smaltire la pesante eredità della crisi e sotto questo profilo il sistema bancario italiano dovrà finalmente smaltire lo stock di crediti dubbi, che rischiano di appesantire inutilmente i bilanci, generando incertezze non giustificate, ma che possono ingigantirsi ad ogni stormire di fronda.
Il Fondo monetario internazionale non ha dubbi sull’opportunità di creare una bad bank di sistema o in alternativa di attivare un mercato trasparente ed efficiente dei crediti inesigibili. La Commissione europea non ha invece dubbi nel bloccare qualsiasi iniziativa che possa avere anche un vago sentore di aiuti di Stato. Ma Bruxelles non può continuare ad analizzare il problema con ottuso formalismo: deve ricordare che la bad bank è un passo importante per completare il processo di ristrutturazione di un sistema bancario che non ha praticamente avuto bisogno di sussidi pubblici, nonostante una crisi di proporzioni inattese.
Lo scontro si annuncia durissimo e, come ha ricordato Roberto Napoletano il 31 dicembre, è opportuno che si levi con forza la voce della politica italiana.In ogni caso, la Commissione non può attenersi al diktat tedesco che la riforma bancaria è completata e adesso si gioca con le nuove regole. Per due motivi fondamentali: uno di fatto e uno di diritto.
Quello di fatto è che in Italia gli effetti della crisi sono emersi più tardi. Le banche degli altri paesi che sono state salvate a suon di miliardi (compresi quelli di fonte italiana) si erano ingozzate di titoli tossici (vedi Francia e Germania) o avevano allegramente finanziato la bolla immobiliare (Spagna e Irlanda). In Italia, la crisi ha invece messo a nudo la degenerazione avvenuta in una serie (ahinoi ormai numerosa) di banche che avevano trasformato i punti di forza del localismo in elementi di erogazione clientelare e dissennata del credito. La crisi finanziaria non è stata in Italia la causa prima dei dissesti bancari; è stato il fattore che lo ha messo a nudo, in base al principio caro a Warren Buffett che dice: è quando la marea si ritira che si capisce chi nuotava senza costume.
L’Europa non può non tener conto di questa differenza fondamentale fra le banche italiane e quelle che sono state fin troppo generosamente salvate. Anche perché il 2016 sarà l’anno della ristrutturazione delle banche di credito cooperativo, una componente ormai importante del nostro sistema creditizio, ma in cui coesistono encomiabili punti di eccellenza e preoccupanti criticità. Ma lo spazio per soluzioni interne (quelle in cui i forti si prendono sulle spalle i deboli) è sempre più ristretto. Il motivo fondamentale per cui la crisi delle quattro banche si è trascinata per le lunghe è che nessuna fra le banche maggiori si è sentita di offrirsi “volontaria” (le virgolette sono d’obbligo in questi casi) per un intervento risanatore.
Tutto questo significa che il contenzioso con Bruxelles è destinato ad intensificarsi, anche perché, in punto di diritto, non è accettabile la posizione attuale secondo cui l’Unione bancaria è completa e da adesso si applicano le nuove regole.
L’Unione bancaria era stata annunciata con tre pilastri: due sono stati completati, cioè la vigilanza accentrata e il meccanismo di risoluzione delle crisi, ma manca ancora all’appello quello dell’assicurazione dei depositi.
Dire, come piace oggi ai tedeschi, che di questo si riparlerà quando saranno messi in sicurezza i debiti pubblici nazionali non ha senso economico perché l’esperienza americana della Fdic (Federal deposit insurance corporation) dimostra che assicurazione dei depositi e risoluzione delle crisi sono strettamente complementari.
Ma soprattutto cambia le carte in tavola rispetto al disegno originario e apre disparità di trattamento intollerabili. In questo quadro, la posizione rigida della Commissione sul ruolo dei fondi nazionali, messa in evidenza dai documenti pubblicati recentemente dal Ministero dell’economia, aggiunge semplicemente il danno alle beffe. Il miglior augurio per il 2016 è che su questo punto si faccia definitivamente chiarezza e si risolva la situazione attuale, in cui l’unico principio chiaro sembra essere quello: «Chi ha avuto ha avuto». Per il 2016 ci meritiamo di meglio.