Quattroruote, 31 dicembre 2015
Breve storia del sampietrino
Dal punto di vista della sicurezza stradale è, probabilmente, un fatto positivo. Se, però, non ci limitiamo a vedere i risultati solo dal parabrezza,l’“operazione sampietrini” assume ben altro significato; perché “li serci”, come li chiamano i romani, fanno parte della vita della città da oltre quattro secoli, durante i quali sono diventati protagonisti, diretti e indiretti, di una miriade di piccole e grandi storie. Si racconta, per esempio, che nel 1960, girando il film “La dolce vita”, Anita Eckberg si sia rotta un tacco proprio tra un cubo e un altro; e che per questo fu convinta da Fellini a fare il famoso bagno notturno nella fontana di Trevi, un’intuizione che si rivelò geniale...
DAI VULCANI ALLA CITTÀ ETERNA
La comparsa del sampietrino risale all’epoca del papato di Sisto V (1585-1590), al secolo Felice Peretti, quando si cominciò a utilizzare questo blocchetto di leucitite, roccia eruttiva tipica delle zone vulcaniche laziali, per lastricare tutte le strade principali. Accostandoli tra loro si otteneva una specie di pavé che, per quanto riguarda il passaggio dei carri, ai tempi dei Papi reagiva meglio di ogni altra superficie. Nel 1736, Clemente XII (Lorenzo Corsini) ne fece largo uso nei rioni e su via del Corso, dove, nei giorni delle competizioni (corse a piedi e a cavallo) che si concentravano nel periodo del carnevale, le pietre venivano ricoperte con sabbia e trito di tufo, per migliorare il “grip”. Oggi, sulle strade se ne vedono di diversi tipi e dimensioni: i più grandi misurano 12x12x18 cm, quelli più comuni 12x12x6, mentre i più piccoli, quelli di 6x6 cm, sono rari e si trovano soltanto in alcuni luoghi, come a piazza Navona, dove, dopo la breccia di Porta Pia (1870), furono impiegati per realizzare un grande marciapiede centrale.
In sostanza, erano solo parenti evoluti dei sassi stradali degli antichi Romani che, per primi, impararono a scavarli in cave di origine vulcanica alle pendici dei Castelli; quando queste cominciarono a esaurirsi, i sampietrini autoctoni furono integrati con mezze piramidi tronche di porfido altoatesino. Ancora: negli anni 90, un sindaco, Francesco Rutelli, li fece arrivare addirittura dalla Cina suscitando l’inevitabile sequenza di polemiche, entusiasmi e critiche per il costo, ritenuto eccessivo.
Per non parlare del problema di spostare i sampietrini ogniqualvolta c’era da fare una riparazione al sottofondo stradale; la pavimentazione, infatti, ha la caratteristica di non essere cementata, ma solo posata e poi battuta su un letto di sabbia e pozzolana. Un lavoro piuttosto complesso che, tuttavia, le conferisce elasticità e capacità di coesione e di adattamento alla base. La soluzione ha anche i pregi di lasciar respirare il terreno, grazie agli spazi tra un blocchetto e l’altro, di adattarsi molto facilmente alle irregolarità e di essere particolarmente resistente. I lati negativi? Non garantisce un risultato uniforme e, se bagnata, la pavimentazione può diventare scivolosa come una saponetta. Poi, come sanno bene i romani, mal sopporta il passaggio continuo di camion e pullman, che sui sampietrini diventano orrendamente rumorosi.
OGGETTI CONTUNDENTI
Se l’invenzione risale alla fine del ’500, il nome fu coniato solo un secolo e mezzo più tardi. Nel 1725, monsignor Ludovico Sergardi, all’epoca prefetto ed economo della Fabbrica di San Pietro, si trovò a dover valutare le pessime condizioni in cui versava la piazza. Poco tempo prima, la carrozza che trasportava Papa Benedetto XIII (Pietro Francesco Orsini) si era quasi ribaltata nell’attraversarla. Sergardi decise pertanto – approfittando, pare, di una tassa sul meretricio – di farla lastricare. Molto probabilmente, poiché il lavoro fu affidato ai “sanpietrini”, vale a dire agli operai specializzati che si occupavano della manutenzione ordinaria della Basilica Vaticana, degli arredi, degli addobbi e della custodia della stessa, i caratteristici blocchetti di leucitite trovarono in quel periodo il nome che tuttora li caratterizza. Per i romani, però, restano i “serci”, così come “selciaroli” sono gli operai che lavorano alla loro installazione. Su vie o piazze della Capitale nelle quali, in occasione di manifestazioni e rivolte popolari, sono anche stati sradicati, per poi essere scagliati verso le forze dell’ordine. Magari, in risposta ai candelotti lacrimogeni.
A raccontarci altri usi impropri dei “serci” ci sono anche alcune stampe di Bartolomeo Pinelli (1781-1835) che mostrano, sullo sfondo di antiche rovine, scontri tra piccoli eserciti in cilindro e camiciola e duelli tra monticiani e trasteverini. Conflitti a “serciate” sono protagonisti anche dei sonetti di Gioacchino Belli (1791-1863): «M’impostai cor un sercio e nun me mossi, je feci fa tre antri passi, e ar quarto lo presi in fronte, e je scrocchiorno l’ossi»... Per non parlare, in tempi ben più recenti, della battuta di “Er Patata” («Te prendo a serciate!») nel film “Compagni di scuola” di Carlo Verdone.
La pittura e il cinema sembrano proprio adorarli: asciutti o luccicanti alla fine di un acquazzone che siano, con i riflessi dei neon dei negozi che ne fanno tele perfette per la fotografia artistica, sono unici per proiettarvi figure, ombre, sagome di belle donne o di assassini. Il loro fitto reticolato ci porta immediatamente a ritroso nel tempo e ci fa assaporare quel senso di arcaico che è proprio della Città Eterna. Sotto il solleone o con la pioggia, all’alba o al tramonto, qualsiasi veduta della Capitale non può prescindere dal segno geometrico dei sampietrini, che contribuisce a fare di Roma un’irriproducibile opera d’arte.