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 2015  dicembre 31 Giovedì calendario

Le banche italiane cambiano. E non è detto che sia un bene

Una paginona di pubblicità sui quotidiani per spiegare perché, nell’inverno dello scontento bancario, è il momento di «stare con le Bcc». Prima di Natale il credito cooperativo ha alzato la voce, con un messaggio a mezzo stampa dal duplice obiettivo. Il principale è smarcarsi dalla tempesta abbattutasi sui quattro istituti di credito che hanno inguaiato migliaia di risparmiatori, Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara. L’altro motivo, solo apparentemente secondario, è mostrarsi compatto al cospetto del governo di Matteo Renzi, che a fine gennaio varerà la riforma delle banche di credito cooperativo e delle casse rurali. Si tratta di un piccolo grande esercito con 368 insegne e 4.450 sportelli, che vive con estremo fastidio l’accostamento ai dolorosi pasticci delle quattro banche più odiate d’Italia. Un osservatore disattento – pensano i cooperatori del credito – può essere infatti indotto a credere che la riforma delle Bcc abbia carattere emergenziale, che serva per creare una cintura di sicurezza intorno alle difficoltà dei piccoli istituti di credito. Invece è da un annetto che se ne parla, ribadiscono gli eredi di Leone Wollemborg, il filantropo che fondò la prima cassa rurale nel lontano 1883 a Loreggia, in provincia di Padova.
«Il governo aveva intenzione di inserire la profonda riforma di Bcc e casse rurali all’interno del provvedimento che ha obbligato le prime dieci banche popolari italiane a trasformarsi in società per azioni. Siamo riusciti a stoppare questa ipotesi, promettendo una seria auto-riforma e, in pochi mesi, avevamo pronto il nostro progetto, messo a punto anche attraverso il confronto con Banca d’Italia e ministero dell’Economia», sostiene Sergio Gatti, direttore generale di Federcasse, l’associazione che rappresenta il variegato mondo delle Bcc e delle casse rurali. Un sistema in cui, al fianco di istituti con una manciata di dipendenti, convivono realtà come la Bcc Roma, che è già la più grossa di tutte e ancor più grossa è diventata in questi giorni, dopo aver salvato la Bcc di Padova, rilevando 28 agenzie. Il nuovo gruppo avrà quasi 1.500 addetti, 360 mila clienti tra Lazio, Abruzzo e Veneto, oltre 200 sportelli e quasi 7 miliardi di impieghi. È curioso: a Padova, culla del credito cooperativo, il cavaliere bianco è arrivato al galoppo grazie al piccolo gigante capitolino, che certo non assomiglia alle mini casse rurali immaginate nell’Ottocento da Wollemborg. Comprendendo anche la rimessa in carreggiata, a luglio, della cesenate Banca Romagna Cooperativa, nel 2015 per i salvataggi il sistema delle Bcc ha sborsato circa 50 milioni. Tre delle cinque commissariate – la Cassa rurale di Folgaria (Trentino), la toscana Banca Cascina e la pugliese Bcc di Terra d’Otranto – stanno per tornare “in bonis”, come si dice in gergo. E le ultime due in castigo? «Soluzione interna» pure per loro. La Banca Irpina di Avellino passerà a un’altra Bcc campana, mentre per la Banca Brutia di Cosenza si sta costruendo un epilogo analogo.
Nei mesi passati il lungo lavoro di messa a punto di un impianto che sposasse i desiderata europei – che chiedono il rafforzamento e il consolidamento del sistema del credito – con il desiderio di autonomia e indipendenza tipico delle banche mutualistiche è stato portato avanti. Le discussioni all’interno del movimento sono proseguite sottotraccia e il governo ha continuato ha rinviare il varo del provvedimento. L’iter ha subìto una rapida accelerazione quando è esploso il caso di Banca Etruria & C. Anche il credito cooperativo non è il paradiso in terra dei rispami e i suoi rovesci li ha certamente vissuti: appartengono a quel mondo, come già detto, cinque istituti di credito commissariati su nove. Ma finora, sostiene Gatti con metafora pneumatica, «le gomme le abbiamo riparate da soli». Senza giri di parole: i denari per salvare le Bcc in difficoltà sono stati sganciati dall’interno, «senza richiedere aiuto a nessuno, né allo Stato né alle altre banche né ai risparmiatori», mette in rilievo il manager dell’organizzazione. Per le tre operazioni di soccorso realizzate nel 2015 sono stati spesi appunto 50 milioni, per rimborsare i portatori di obbligazioni subordinate, lasciati a bocca asciutta nel caso degli istiuti salvati dal governo. Gli interventi effettuati sono stati tutti a carico del credito coop. Anche se a livello generale l’autoriforma – come la chiamano i vertici della Federcasse, guidati dall’eterno Alessandro Azzi (vedi riquadro qui sotto) – proprio “auto” non sarà. Perché mettere tutti d’accordo non è per nulla facile e molti sono contrari alla holding unica per tutte le Bcc, lo strumento che nei piani dovrebbe aiutare le banche più piccole a presentarsi sul mercato dei capitali, superando il limite dei soldi che si raccolgono solo fra i soci-clienti. «Ci sono state pressioni fortissime per preservare l’autonomia di realtà, come quelle di Bolzano e Trento, che possono rivendicare la forza del loro sistema nelle rispettive province, dove le banche strutturate in società per azioni sono scarsamente presenti», racconta Lando Sileoni, segretario della Fabi, la più rappresentativa organizzazione sindacale tra i bancari. Che aggiunge: «Il fatto è che se passa il principio di autonomia anche altre banche, che garantiscono adeguate dimensioni e solidità patrimoniale, possono chiederlo. Per questo motivo il governo, a un certo punto, dovrà decidere se e come andare incontro a queste richieste. Con il rischio, però, di partorire un tipico compromesso all’italiana».
Sergio Gatti di Federcasse sembra non avere dubbi: di holding vera e propria, e sostanziosa, alla fine ce ne sarà una sola, e prenderà il nome di Gruppo bancario cooperativo. L’unica eccezione, assicura a dispetto delle aggregazioni che stanno proliferando proprio per presentarsi alla riforma con dimensioni utili per sfuggire all’aggregazione, riguarderà l’esperienza sud-tirolese. Gatti invita a rileggersi il nono dei dieci comandamenti che compongono la proposta di riforma avanzata al governo, che i capi di Federcasse recitano come un mantra: «Il sistema delle Casse Raiffeisen dell’Alto Adige potrà costituire, nel rispetto delle particolari culturali e linguistiche, un proprio gruppo provinciale». Dal cilindro di Pier Carlo Padoan e Giuliano Poletti – i due ministri che da tempo soppesano col bilancino la ricetta della riforma – non dovrebbero dunque uscire spiragli per un’eventuale holding delle Bcc trivenete o lombarde, e neppure libertà d’azione per la Bcc di Roma.
La pensa così anche Giovanni Ferri, prorettore e docente di economia della Lumsa, Libera università di Maria Santissima Assunta. Considerato uno dei massimi esperti del credito cooperativo a livello internazionale, il professore della Lumsa puntualizza: «I casi di malagestione ci sono e ci saranno, e vanno sanzionati. Ma è del tutto sbagliato ritenere che la cattiva gestione sia la causa principale dei dissesti, che invece è la crisi economica che ha colpito i territori su cui le Bcc insistono. Quando le grandi banche hanno stretto i cordoni della borsa, mentre lo choc finanziario si trasformava in choc economico, le banche del territorio hanno continuato a erogare prestiti». Un servizio fondamentale, sottolinea Ferri, senza il quale il credit crunch sarebbe stato più tragico. «Ci vorrebbe un intervento pubblico per sgravare le banche dalle sofferenze sui crediti. Ma non è possibile farlo perché la Commissione europea, tenera con tedeschi, belgi e francesi, è diventata improvvisamente ferrea». Da che mondo è mondo, pensa Ferri, mantenere o ristabilire la fondamentale fiducia nel sistema bancario è interesse primario del “pubblico": «Essere spietati nel far rispettare le regole della concorrenza – con la scusa degli aiuti di Stato – mettendo a rischio la stabilità del sistema non ha senso».
Un argomento utilizzato da chi punta il dito sulla debolezza dei piccoli è l’impreparazione dei consigli d’amministrazione. «Sono ben preparati? Mediamente no. Però dobbiamo commisurare le richieste di competenze alle dimensioni. Al contrario di quanto avviene negli Stati Uniti, le istituzioni dell’Unione europea hanno un approccio “One size fits all”, tutte le banche devono avere le stesse norme. Ma chi ha due filiali non può essere assoggettato agli stessi requisiti di una Deutsche Bank. Contro i conflitti d’interessi ci sono le norme che impediscono di fare prestiti alle parti correlate, e la vigilanza ha gli strumenti per colpire chi fa “affari di famiglia”. Ma occorre stare attenti a non buttare il bambino con l’acqua sporca», dice Ferri. Il prorettore della Lumsa è convinto che le istituzioni europee non comprendano i vantaggi della “biodiversità” del sistema bancario, e si stiano rivelando incapaci di gestire i rapporti con banche che non hanno nel Dna la massimizzazione dei profitto.
«Quando la riforma sarà stata fatta, noi saremo sicuramente interessati a entrare, come azionisti, nella nuova holding, o anche nelle nuove holding, se la legge stabilirà che saranno più d’una», dice apertamente Pietro Giuliani, il patron di Azimut, una delle maggiori società di gestione del risparmio, che in Borsa capitalizza oltre 3,2 miliardi. «Abbiamo già buoni rapporti con diverse Bcc – come quella di Carate, in provincia di Monza – che conoscono bene la clientela e sono ottime distributrici dei nostri fondi d’investimento», spiega Giuliani. Il presidente di Azimut non è l’unico, pare, ad aver fatto toc-toc al portone di Federcasse. A prenotare un posto a tavola al momento buono, aspirando a diventare soci della nuova holding che, di soci in carne e ossa, ne avrà oltre un 1,2 milioni in tutta Italia, ci sono anche investitori esteri. Guardate come un “unicum”, Bcc e casse rurali diventano il terzo gruppo bancario, il primo per capitale italiano. E nel giro di qualche anno la superholding potrà andare in Borsa, anche se la maggioranza dovrà restare nelle mani del sistema delle Bcc, sottolinea il direttore di Federcasse.
Oltre 12.300 mila chilometri separano Montreal, in Quebec, da Chittagong, megalopoli del Bangladesh con 6,5 milioni di abitanti. Nella prima ha sede il gigante Desjardins, grande banca cooperativa canadese con centinaia di migliaia di soci. Nella seconda è nato Muhammad Yunus, teorico del microcredito. Desjardins è enorme e organizza delle sub-assemblee per mantenere i legami con il territorio. Così come il microcredito, che ha regalato il Nobel a Yunus, ha avuto successo grazie al “peer monitoring”, il meccanismo di controllo tra pari che, ricorda Ferri, ha permesso di finanziare minuscole attività economiche dove non esisteva nulla, proprio grazie ai principi non così dissimili da quelli di un colosso come Desjardin. Con un tasso di sofferenze inferiore a quello delle banche tradizionali.