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 2015  dicembre 31 Giovedì calendario

Per Natale i giapponesi hanno voluto i robot e ora il governo pensa di usarli al posto degli immigrati

Niente sciarpe di cachemire. Niente orologi griffati. Quest’anno in Giappone, il regalo di Natale più ambito è stato un robot androide. Il mercato ne offre una pletora. Alla iREX, la 26ma (nota bene, 26ma) Robot Expo Biennale in corso a Tokyo mentre scriviamo, sono 456 gli espositori; e i visitatori – affascinati i più giovani, alquanto pensierosi i più anziani – si contano a migliaia ogni giorno. Fra tutti gli umanoidi esposti primeggia Pepper, prodotto dalla Softbank. Costa 198mila yen (circa 1.600 euro), quanto un buon laptop, un prezzo a portata di borsa per la classe media che gode di uno stipendio medio mensile di400m i la yen (circa tremila euro). La Softbank lo reclamizza come «il primo robot capace di comprendere le emozioni umane». A tal punto che la ditta si è sentita in dovere di emettere un comunicato in cui si sconsiglia di richiedere a Pepper prestazioni sessuali. Pepper e i suoi agguerriti concorrenti, tra cui eccelle Asimo della Honda, possono svolgere le delicate funzioni di una badante, o servire un tè come navigati maggiordomi inglesi, o aiutare i bambini di casa a fare i compiti come un tutore d’altri tempi. E persino trasformarsi in un imbattibile giocatore di ping-pong che però si lascia programmare per far vincere ogni tanto il suo avversario umano e non deprimerlo troppo. Si ipotizzano anche Olimpiadi per robot a breve termine.
I costruttori di condomini ritengono che un robot androide possa svolgere alla perfezione il compito di portiere e di guardiano vigilante della sicurezza dei palazzi. Gli ospedali assegnano ai robot doveri di infermiere e una recente indagine ha accertato che circa l’80 per cento dei pazienti è soddisfatto dell’assistenza ricevuta dagli androidi. Le virtù principali dei robot sono due: la prima è di non pretendere un contratto di lavoro con relativi stipendio, limiti di straordinario, vacanze pagate, contributi e rischio di karoshi, ossia di morire stroncati da troppo lavoro, una delle attuali piaghe sociali del Paese del sol levante. Grasso che cola se gli si concede una buona revisione tecnica annuale. Della seconda virtù, ne parleremo più avanti.
Tra i più apprezzati prodotti sul mercato c’è anche una specie di vestito robotizzato che permette a pazienti con la parte inferiore del corpo paralizzata di alzarsi e camminare. È stato appena approvato dal ministero della salute giapponese e sarà presto incluso nella lista delle protesi a disposizione di tutti i pazienti colpiti da atrofia muscolare spinale e sclerosi amiotrofica laterale assistiti gratuitamente dalla medicina sociale. È il prodotto di punta della Cyberdyne Ine. di Ibaraki che lo ha chiamato suggestivamente Hai (Hybrid Assistive Limbi. «Stiamo creando un’industria medica all’avanguardia» ha dichiarato Yoshikui Sankai, fondatore e presidente della ditta.
C’è anche Muscle Suit (vestito muscolo) che aiuta a sollevare grandi pesi, trasformando fragili anziani in potenti superman dotati di bicipiti da palestra. Un altro robot molto amato e che si crede troverà il suo posto sotto l’albero di molte famiglie giapponesi è Unibo, un piccolo androide con uno schermo a cristalli liquidi in testa che riconosce le persone dai lineamenti del loro viso, chiacchiera del più e del meno con chi gli attacca un bottone e svolge perfettamente molte mansioni come un’efficiente badante. Costa meno di centomila yen (circa 800 euro) ai quali bisogna aggiungere 4.500 yen (circa 35 euro) di abbonamento mensile ai servizi della nuvola a cui va collegato.
Ma i robot sono regali che si scambieranno gli adulti. I giovani – che in gran parte non hanno mai sentito parlare di un palestinese ribelle chiamato Gesù – continuano a festeggiare il Natale in modo inconsapevolmente cristiano. Natale è infatti per loro una sorta di San Valentino: è il giorno in cui la tradizione vuole che si scambino promesse d’amore, spesso coronate dal classico anello con il brillantino, seguite da un pudico bacio sulle labbra e da romantiche passeggiate, ma stando attenti a non farsi vedere mano nella mano perché nel Paese dove fiorisce una delle più grandi industrie pornografiche del mondo, quell’innocente contatto è considerato un atto intimo da non compiersi in pubblico.
Purtroppo a quelle ferventi promesse d’amore non fanno seguito fatti concreti: i giovani, maschi e femmine, si disamorano presto, non si sposano, non fanno figli. Le poche coppie che procreano si limitano ad un figlio e dopo circa il 50 per cento si astiene totalmente da rapporti sessuali.
E la crisi demografica del Giappone si aggrava sempre di più. Gli uomini giustificano questa mancanza di fiducia in una vita in comune con uno o più figli con la necessità di concentrarsi anima e corpo nel lavoro, dove la competitività è esasperata e le esigenze da parte delle aziende si fanno costantemente più pesanti perla sempre più esigua manodopera. Le donne lamentano l’impossibilità di far coesistere lavoro e maternità. Oggi in Giappone avere un figlio vuole troppo spesso dire essere licenziate, o essere spinte a dimettersi. Rivelare al partner o al datore di lavoro di essere incinta dovrebbe essere un annuncio gioioso in una società sana, invece in Giappone è una notizia che getta troppe giovani coppie in uno stato di angoscia.
Il Giappone è un Paese di vecchi e grandi vecchi. Sono circa 40mila – e in continuo aumento – gli ultracentenari. La vita media di una donna giapponese sfiora gli 87 anni (80,50 quella degli uomini). Legioni di anziani che pesano in modo ormai pressoché insostenibile sulle pensioni e l’assistenza. Senza la linfa vitale dei giovani il sistema sociale nipponico rischia di franare. La soluzione c’è. O meglio ci sarebbe, se il governo del liberale Shinzo Abe non cavalcasse la tigre della xenofobia per raccogliere consensi alla sua politica ultra conservatrice. L’ostilità verso lo straniero è un sentimento millenario in Giappone. L’abile e spericolato mercante veneziano Marco Polo, che come racconta ne Il milione, per oltre tre lustri (dal 1271 al 1288) svolse attività commerciali in Cina, spingendosi nello Yunnan, nel Tibet, in Birmania e in India, si guardò bene dal veleggiare verso il Cipangu (com’era allora chiamato il Paese del Sol Levante) nonostante si favoleggiasse delle sue straordinarie ricchezze, perché sin d’allora si narrava di intrepidi e sfortunati viaggiatori finiti nelle fauci di indigeni cannibali.
La xenofobia è rimasta ben viva nella cultura giapponese attraverso i secoli. La legge del Kaikin (blocco marittimo), più tardi denominata Sakoku (Paese incatenato) ha proibito per secoli a chi non possedesse un permesso scritto di approdare in Giappone. E anche di uscirne. Pena la morte.
Ci volle, nel 1854, la minaccia di essere bombardati dalle kurofune (vascelli neri) agli ordini del commodoro americano Matthew Perry, schierate nella baia di Edo, oggi Tokyo, per indurre il Giappone ad aprirsi all’occidente. Un’umiliazione che chiedeva vendetta e che ebbe il suo peso nella decisione dei militari nipponici di lanciarsi, circa mezzo secolo dopo, in una travolgente campagna di espansione coloniale nel continente asiatico, macchiata da orrendi crimini di guerra (la cui narrazione non appare ancora nei libri di testo scolastici per decisione governativa), espansione poi sfociata nella folle e suicida entrata in guerra contro gli Usa che fece correre al Giappone il rischio di scomparire dalle carte geografiche. Abe sa bene che la sua avversione a lasciare entrare lavoratori stranieri viene approvata dalla maggioranza dei giapponesi. Ma sa anche che la crisi demografica rischia di far collassare il Paese: una soluzione deve essere trovata senza indugi.
Ora è il momento di dichiarare la seconda virtù dei robot: ognuno di essi è in grado di lavorare ogni giorno tre turni di un essere umano, senza commettere errori e con costi vicini allo zero. «Lasciamo chiuse le frontiere agli immigrati e moltiplichiamo la produzione di robot umanoidi che sostituiscano i lavoratori umani» ragiona il pragmatico premier. Un’idea più degna del film Metropolis che di un’economia umanamente moderna. Detto, fatto. È appena partita una grande campagna propedeutica per un ricorso sempre più massiccio ai robot a tutti i livelli della produzione nazionale. E per far seguire alle parole i fatti, il governo ha quadruplicato gli investimenti nel settore, portandoli a 2,4 miliardi di yen (pari a circa due miliardi di euro). Secondo i consiglieri finanziari di Abe, con il rilancio della produzione e il ricorso massiccio alle prestazioni senza limiti degli umanoidi, si reperirebbero anche le risorse finanziarie per sostenere le spese previdenziali e assistenziali degli umani, i due cancri che minano il corpo sociale giapponese.
Oltre all’efficienza dei robot, si cerca di migliorare la somiglianza agli esseri umani per rendere più «umana» la convivenza con individui governati da intelligenza artificiale. Hiroshi Ishiguro, dell’università di Osaka, ha prodotto diversi umanoidi di straordinaria somiglianza agli umani. Il più affascinante è Geminoid F, un umanoide femminile con straordinarie sembianze, dotata di una serica epidermide, capace di muoversi con grazia, in grado di conversare e cantare. È già una star e gira il mondo in tournée trasportata in due valige, esibendosi davanti ad affollate ed entusiastiche platee.
Toshio Fukuda, docente di robotica all’università di Nagoya, in questi giorni ha detto: «Costruire robot a immagine e somiglianza degli umani è solo una fase intermedia. Poi si andrà oltre». Oltre dove? Oltre quanto? Oltre come? E se un giorno androidi ipersofisticati fossero in grado di rivoltarsi contro i loro creatori umani? «Questa eventualità non mi preoccupa» risponde con una tanto sonora quanto cinica risata, potrebbe avvenire tra 30 o 40 anni e io non farò più parte di questo mondo». Ma 40 anni sono maledettamente vicini. C’è poco da ridere, prof.