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 2015  dicembre 31 Giovedì calendario

Il giornalismo curatoriale del Mmuseumm, uno dei più piccoli al mondo

C’è la spazzola di una spogliarellista. Un pacchetto di biscotti Obama. Una tassonomia di cornflake, ognuno col numero di serie. L’evoluzione della specie dei coperchi delle tazze di plastica dei caffè da asporto. Un campionario di oggetti finiti nei corpi di esseri umani, recuperati poi da un medico del Massachusetts (si segnala un giunto per tubi idraulici, in ghisa). Benvenuti al Mmuseumm, verosimilmente il più piccolo museo del mondo: uno stanzino due metri per due, originariamente vano di un montacarichi al 4 di Cortland Alley, Chinatown. Con ambizioni esorbitanti viste le dimensioni.
«Proviamo a scegliere artefatti contemporanei che illustrino e umanizzino la complessità del mondo moderno» dice Alex Kalman, videomaker che insegna nei quartieri difficili, nonché uno dei fondatori. C’è, per così dire, una collezione permanente (un paio di scaffali che rimangono uguali nel tempo) e il resto cambia ogni anno, per cercare di cogliere gli aggiornamenti dello Zeitgeist.
Si visita su appuntamento, con una guida che spiega la logica dietro le scelte, o con un’audioguida che si attiva specificando al telefono l’oggetto di cui si vuol sapere la storia. Quando ci passo io faccio i turni per entrare con Luise Stauss, sofisticatissima photo editor, e una sua amica documentarista, che si complimentano col curatore (figlio dell’illustratrice Maira e del designer Tibor, che fu direttore della rivista Colors), e sembra di essere dentro il tableau vivant di quegli articoli del New Yorker che documentano la croccante vita culturale cittadina.
Ci sarebbero delle domande da fare, che evito per non sembrar volgare. Tipo: chi paga? Nel senso che l’affitto del vano sarà poca cosa, ma non c’è biglietto (salvo spontanee donazioni). Pochi metri più in là c’è una seconda ala, di pari metraggio, che ricostruisce il contenuto dell’armadio della nonna di Alex, madre di Maira. Un’affascinante signora che vestiva in total white come Tom Wolfe e che portava tre orologi sul polso, rispettivamente sull’ora di New York, Londra e Tel Aviv, la città che si era lasciata alle spalle. Qui però non si può entrare, si guarda dall’esterno.
L’ala principale sta per andare in letargo. Riaprirà a marzo con una nuova collezione, in parte concepita dai curatori, in parte suggerita da loro amici. Uscirà, probabilmente, la selezione di maschere da gas autoprodotte (con varie combinazioni di bottiglie di plastica) e l’uguale e contraria attrezzatura antisommossa di un poliziotto («Consideratelo giornalismo curatoriale» dice Kalman). Entreranno altre «buone cose di pessimo gusto» che avrebbero fatto la felicità di Gozzano. E che, in questo setting parodisticamente museale (con il velluto rosso e le etichette esplicative), assumono davvero un significato universale sul quale, altrimenti, non avremmo riflettuto.