il Giornale, 31 dicembre 2015
Maurice Garçon, l’avvocato che, durante l’occupazione tedesca, prendeva appunti per raccontare una Francia di fronte alle proprie vergogne
Nato nel 1889, allo scoppio della Seconda guerra mondiale il cinquantenne Maurice Garçon è uno dei più famosi avvocati di Parigi, nonché il preferito dalle grandi case editrici, da Gallimard a Grasset, dagli scrittori, da Aragon a Simenon, dai pittori, da Dufy a Utrillo, dagli attori, da Michel Simon a Louis Jouvet. La sua è un’oratoria raffinata, colta, e lui stesso del resto alterna a opere giuridiche commedie, romanzi, canzoni e in tribunale a volte si diverte a schizzare ritratti e paesaggi quando la parola passa all’accusa per l’arringa finale, come se non meritasse la sua attenzione... È anche un bon vivant, prime teatrali, cocktails letterari, ricevimenti esclusivi, ma non si tira indietro se la cronaca nera o gli scandali politici reclamano la sua presenza. Spesso, la posta in gioco è la vita di un uomo. In Francia vige ancora la pena di morte: in quei casi Garçon è un combattente, e non un uomo di mondo.
Felicemente sposato, gran borghese, tre figli, già a ventitré anni Maurice ha cominciato a tenere un diario: «Non sono memorie, è troppo presto e non ne so abbastanza. E nemmeno pensieri, non sono così sicuro di me stesso. Annotazioni, più che altro, di cui voglio ricordarmi e che soltanto io, forse, avrò piacere a rileggere». Non c’è dietro di esse un calcolo letterario, lo scrivere per gli altri facendo finta di scrivere per sé: «Un vero diario è necessariamente pieno di assurdità. Il suo interesse sta nelle contraddizioni proprie a ogni essere pensante. Bisogna risolversi a scrivere cose di cui domani arrossiremo, ma che non dobbiamo cancellare, se si vuole verificare su se stessi il cambiamento. Impubblicabile, insomma, e d’altronde non interessante se non per chi lo scrive. È quanto cerco di fare. Questi quaderni che da tanti anni riempio di frasi non corrette e confuse, perché mi impongo di non rimetterci mai le mani, quando li scorro per trovare un’informazione mi fanno vergognare». Alla fine della guerra, il giudizio sarà ancora più drastico: «A leggerle, queste note mi faranno passare per più imbecille di quanto lo sia veramente». Eppure, proprio perché il suo successo d’avvocato è legato alla parola, e quindi è volatile («che cosa ho costruito? Niente, tutta la mia arte, ammesso ne abbia una, è verbale»), alla scrittura solitaria, quotidiana e intima Garçon rimarrà legato sino alla morte, nel dicembre del 1967, per un totale di 43 quaderni cronologicamente raccolti e che nel successivo mezzo secolo verranno custoditi dalla figlia Françoise, sua erede testamentaria con la piena volontà di farne l’uso ritenuto più opportuno.
Adesso che Fayard manda in libreria la parte relativa alla guerra e alla occupazione (Journal 1939-1945, pagg. 684, euro 35, a cura di Pascal Foché e Pascale Froment), i dubbi e le perplessità del suo autore, lungi dal trovare una conferma si caricano del loro esatto contrario: proprio perché scritte sul tamburo e mai riviste, legate a contingenze, a stati d’animo e a idiosincrasie, a volte frutto del sentito dire, di giudizi riportati senza possibilità di verifica, queste memorie sono quanto di più onesto e sincero è dato di leggere su quella che rimane la pagina più amara e più oscura della storia novecentesca francese. Sono gli anni in cui trionfano il pettegolezzo, la calunnia e le speranze assurde, dove si può detestare Pétain e il governo di Vichy, ma rimanere antigaullisti (un oscuro generale di cui non si conosce nemmeno bene il cognome); vergognarsi per l’occupazione tedesca, ma detestare gli inglesi che a Dunquerke hanno lasciato la Francia in brache di tela; essere anticomunisti e trovare però orribile la stampa collaborazionista. Soprattutto, sono gli anni in cui l’antisemitismo ben radicato nella società francese viene meno via via che la persecuzione nei confronti degli ebrei aumenta, senza però scomparire mai del tutto, una sorta di imprinting razziale ineludibile.Dietro la politica di Pétain, inizialmente difesa, Garçon vede subito «una frenesia a capitolare inversa a quella degli Stati Maggiori a combattere», ma vede anche la vigliaccheria e il quieto vivere che dalla giustizia alla stampa, dal commerciante all’industriale e all’operaio fa della propria sconfitta una ragione di vita. La miseria morale delle élites va di pari passo con una frenesia all’abbrutimento, al divertimento, al non pensare. Il giorno dopo giorno gli mette di fronte i ristoranti affollati e poi il razionamento e la borsa nera, il buio delle strade per il coprifuoco e i teatri e i cinema dove si registra il tutto esaurito. Magistrati ambiziosi sono l’altra faccia di scrittori avidi, borghesi opportunisti si scambiano i ruoli con collaborazionisti scatenati. A occupazione finita, registrerà come i tribunali che ora assicurano la nuova legalità repubblicana siano guidati dagli stessi giudici che ieri assicuravano la legalità tedesca; scopre che gaullisti e comunisti si fanno la guerra fra di loro; registra che il numero di resistenti aumenta via via che l’invasore germanico scompare all’orizzonte.
«Bisogna diffidare delle memorie scritte dopo» osserva allorché con la Liberazione si moltiplicano le rievocazioni patriottiche: «Almeno i miei ricordi sono sinceri, pieni di errori e di idee sbagliate». Molte di quelle rievocazioni fanno il paio con il ristorante Maxim’s, dove sino al ’44 pranzavano la Wehrmacht e le SS, e dopo l’ingresso degli Alleati e pochi giorni di chiusura per lavori è diventato la mensa di lusso dell’esercito americano... Il giorno successivo alla fucilazione di 50 ostaggi per l’uccisione di un soldato tedesco, scrive: «Sono uscito dopo cena. Pensavo di vedere la città in lutto. I cinema rigurgitavano di gente. I ristoranti erano pieni. La metropolitana trasportava una folla piena di allegria. Si rideva. Non si pensava più al lutto che gli avvenimenti ci impongono. Che cosa siamo diventati?». Le debolezze degli altri sono però anche le sue. Non può sempre evitare di frequentare chi non vorrebbe, e inoltre gli piacerebbe essere eletto all’Académie française... Critica la magnificenza «collaborazionista» di Sacha Guitry, ma non rinuncia alla sua tavola imbandita d’ogni ben di dio. Vive come una vergogna la stella gialla imposta agli ebrei, ma all’indomani della Liberazione si preoccupa: c’è il rischio che quegli stessi ebrei «tornino con denti belli lunghi, un appetito feroce e delle esigenze intollerabili. La loro vendetta sarà terribile e crudele. Saremo forse obbligati a divenire antisemiti?».
Letti oggi, come osservano i curatori del Journal «è difficile non sussultare su alcuni passaggi che nemmeno le sue riflessioni di buona volontà riescono a temperare». E però è la Francia vera del tempo quella che prende vita in queste pagine, e a volte la Francia migliore: «Non mi sento vinto. Si è vinti quando ci si sottomette. E io non sarò mai sottomesso. Dovessimo attendere cinquant’anni e rimetterci i nostri figli, dobbiamo educarli in uno spirito di orgoglio nazionale che impedisca loro di prendere la mentalità di schiavi che ora gli si vorrebbe dare».