La Stampa, 31 dicembre 2015
«Io non sono drammatico, è che vedo prima il lato oscuro delle cose». Parla Valerio Mastandrea
Non ha vinto l’Oscar, non è al primo posto nella classifica degli incassi e all’ultima Mostra di Venezia, dove il suo film è stato presentato, non ha ricevuto nessun Leone, né d’oro né d’argento. Eppure, per Valerio Mastandrea, il 2015 è stato l’anno cruciale, il più importante fra i tanti già trascorsi sui set e sui palcoscenici.
È stato l’anno di Non essere cattivo, segnato dalla scomparsa, a maggio, del regista Claudio Caligari, chiuso con la delusione, pochi giorni fa, per il film scartato dalla corsa alla statuetta. Due sconfitte, si direbbe, e invece no: quello che conta sta in mezzo. La dedizione dell’attore al fianco del regista morente, la battaglia per ottenere i finanziamenti necessari al film, la tenacia nell’aiutarlo a realizzare il sogno. Senza vincere si cresce, forse di più che con in mano un trofeo. A Mastandrea è successo, anche perché, da ragazzo sveglio, cresciuto a Roma tra Testaccio e Garbatella, ha mantenuto intatte purezza d’animo e carica ironica. Da una parte la capacità di apprendere dai maestri, dall’altra quella di scherzare: «Un Oscar è sempre importante, perchè avvicina la gente al cinema. Quando Sorrentino ha vinto con La grande bellezza ho passato un’intera settimana a spiegare a quelli del mio rione di cosa parlava il film».
Quanto l’ha cambiata la vicenda di «Non essere cattivo», quanto le ha dato in termini di maturazione personale?
«Ogni film, se lo vivi come un’esperienza non solo professionale, ti cambia. Nec è stato ancora qualcosa in più. Vuoi per il lungo impegno di “messa in posa” e il conseguente mio ruolo, diverso dal solito, poi per tutto l’aspetto affettivo e da ultimo, ma non per importanza, per il clima respirato sul set e per il lavoro fatto dopo. Per come ho vissuto quest’anno, con questo film addosso, non posso credere che non mi abbia profondamente cambiato. Gli effetti un po’ già li vedo, ma credo che quelli più forti mi stiano ancora aspettando».
Qual è stato, fra i tanti, l’insegnamento più grande?
«Forse la cosa che ho capito meglio è quanto il lavoro artistico venga da una spinta animale, da una passione che ti fa stare sempre a stretto contatto con la vita e con la morte. Qualche tempo fa ho riletto, per caso, alcune email scritte da Claudio, ci ho ritrovato un’abnegazione, un attaccamento totale al suo mestiere. Ed era già in condizioni di salute disastrose».
Che cosa si ripromette per l’anno nuovo, da attore e da persona? Qual è l’obiettivo che desidera realizzare?
«Il più importante non è un obbiettivo professionale, e capirà, spero, la voglia di non renderlo pubblico. Per quanto riguarda il lavoro, sarà, come sempre, un anno in cui cercherò di realizzare qualcosa che mi traghetti un po’ più avanti. Un po’ più in là, non verso uno specifico traguardo. La bandiera a scacchi significa fine della corsa. Meglio continuare a correre».
La vedremo presto nel film che Marco Bellocchio ha tratto dal libro di Massimo Gramellini «Fai bei sogni». Che tipo di esperienza è stata?
«Incontrare un regista come Marco dopo l’esperienza di Nec è stato un dono. Quando mi serviva tornare all’entusiasmo con cui ho iniziato a fare l’attore, lavorare con Bellocchio mi ha fatto entrare nella casa più accogliente possibile. Non come rifugio, ma come luogo in cui discutere del senso profondo dei personaggi che incontri, delle vite che racconti. Non è stata la storia ad attirarmi, ma l’idea che un regista come lui aveva della storia, e quanto desiderasse perlustrare l’intimità del personaggio».
Secondo lei c’è speranza per il cinema italiano, tra blockbuster e supereroi?
«Finché ci saranno buoni film, registi che rischiano e attori che non si accontentano, ci sarà sempre speranza. Ma la speranza non basta. Servirebbe una buona legge sul cinema che protegga gli esordi e investa sulla riaperture delle sale chiuse. Oggi la gente non pensa più al cinema come rituale, al cinema va portata per mano. Ma prima va tirata fuori di casa e va convinta del fatto che noi il cinema lo sappiamo fare. Spesso all’estero ce lo riconosce la gente migliore del nostro settore».
Per l’Italia e per Roma vede prospettive di miglioramento?
«Roma vuol dire tante cose, è fatta di tante situazioni, anche non istituzionali. Penso a un modo di fare politica che parta dal basso, dal sociale, dai problemi concreti, come l’emergenza abitativa. Penso che la politica abbia perso la capacità di interfacciarsi con le persone, le elezioni sono vissute come partite di pallone».
Su chi pensa sia giusto puntare: persone, luoghi, pensieri, organizzazioni?
«Sulle persone».
I suoi personaggi sono spesso attraversati da un sano pessimismo che poi si traduce in azioni concrete, ottimiste. È una caratteristica che le appartiene?
«A un’amica che ride della mia faccia drammatica e spesso mi prende in giro ho detto: io non sono drammatico, è che vedo prima il lato oscuro delle cose della vita. Non significa non amarla e non voler essere felice. Semplicemente preferisco iniziare dalle brutte notizie».