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 2015  dicembre 31 Giovedì calendario

Tra i disperati che sperano di entrare a Melilla. Un viaggio di Domenico Quirico

La foresta di Gourougou! Pronunciatelo il nome, fate scorrere le sillabe ritmate… Gorougou: sembra uscito dalle «Mille e un notte», sacro alla favole e agli idilli, risuonano di voci e di fatti misteriosi i sentieri di Gourougou, la felicità della primavera e la tristezza dell’autunno si annunziano con strani prodigi, una oscura magia dà moto e voce agli alberi, alle rocce, al monte.
Un sangue caldo scorre nelle vene sotto la verde pelle di foglie. Una leggenda dice che in cima al monte hanno trovato un’antica ancora di nave: perché un tempo un’onda è arrivata fin quassù. Sì, in fondo sono venuto qui attratto dal nome, dalla magia di un nome… Gourougou.
E invece… Invece Gourougou non è un luogo di fate, è un terribile luogo di uomini, è veramente lo smemorato regno della tristezza e del dolore. Tutta la malinconia degli uomini del nostro tempo, i migranti, razza inquieta e infelice, si raccoglie in questo lembo di Marocco, goccia a goccia, in questa estrema regione dell’Africa, come acqua in terra cava.
Greggi abbandonate
Per queste alte terre deserte, dove le greggi abbandonate belano roche tra le agavi e le erbe nel vento che pettina con dita gelide l’erba e la lana, ho incontrato l’ennesimo filo della Grande Migrazione. Non una casa, non una capanna, non un viso di uomo per miglia e miglia, i villaggi e le città, Melilla e Nador, affondate giù nelle valli come in un’acqua cupa balzano a galla ogni tanto, appena un raggio di sole percuote le pareti bianche. Qui tutto è aria luce erba vento roccia e acqua. Il riflesso del Mediterraneo spalanca sul monte cieli esangui. Ma l’alta, splendente malinconia di questa terra ha il suo male segreto, gli «africani», i migranti.
Li chiamano proprio così, i marocchini, senza odio e senza rabbia: gli «africani», come se loro fossero altro e non figli della stessa patria, immensa. Un altro rivolo dell’Esodo si raggruma in questa terra vicina, troppo vicina al primo cielo d’Europa.
Mai come sulla montagna di Gourougou, in questi anni in cui inseguo i migranti, ho visto il contrasto profondo e duro. I migranti con la loro viva e rossa forza che batte loro nei polsi e l’Europa che è morta. Loro hanno introdotto nella Storia contemporanea una cadenza accelerata, un respiro superbo e un veleno profetico la cui violenza non ha smesso di sconcertarci: chi può di fronte a essa restare neutrale? Ci ricordano che la Storia è nostalgia dello spazio e orrore di casa propria, sogno vagabondo e bisogno di morire lontano. Non li avvicini mai inutilmente.
E di fronte: noi, l’Europa, che qui a Melilla, enclave spagnola, è visivamente morta. In questo suo anacronistico antemurale assediato, difeso da un Muro, siamo già smascherati, spogliati delle nostre seduzioni e dell’arroganza legata alle nostre realizzazioni. Qui vediamo quanto c’è di illusorio nei nostri sforzi e nelle nostre convulsioni.
Dalla montagna dove vivono in covili da bestie, ridotti a affamato popolo delle selve, i migranti lo vedono, lo spiano, lo maledicono il loro ipotetico paradiso, è laggiù in fondo, un chilometro in linea d’aria, sdraiato davanti al mare: dodici chilometri quadrati, Melilla, la Spagna d’Africa. Dell’impero su cui non tramontava mai il sole, degli hidalgos e dei re cristianissimi, restano solo questi dodici, sonnolenti chilometri quadrati di case giallastre, come le città povere del nostro Sud.
Ma per i migranti questa terra è d’oro, perché è già Unione europea, chi riesce a calpestarla è già in Europa. Niente viaggi mortali nel Mediterraneo crudele, niente passeur che chiedono migliaia di dollari. Si entra direttamente in paradiso, a Melilla.
La Barriera
Non c’è niente da visitare, nessuna chiesa barocca, neppure la cittadella, ben restaurata, con i suoi inutili cannoni di bronzo e le statue di dimenticati eroi della «reconquista» e dei furibondi assedi dei «moros» vale il viaggio. Melilla si riassume e si conclude nella «Barriera». Dodici chilometri di filo spinato, rete alta fino a sei metri, garitte in triplice fila, corrente elettrica trabocchetti infiniti. Per tenere lontano gli uomini, per non farli entrare. Trenta milioni di euro dei contribuenti europei è costata, ogni mese la perfezionano, la rafforzano, la rendono più micidiale. Non c’è centimetro dei dodici chilometri che non abbia appeso qualcosa, ci hanno lasciato i vestiti, gli stracci, i sacchetti di plastica, la pelle su quel ferro crudele.
Entro in Marocco dal valico di Barrio Chino, il valico dei contrabbandieri. Un fiume umano che corre, urla, si spinge, inveisce, mi supera, bestie da soma, uomini e donne, che trascinano sulla schiena montagne di carta igienica, sacchi di cemento, confezioni di acqua minerale e di olio per motori, fanno rotolare copertoni di automobili usati e enormi balle di vestiti vecchi. Furgoncini decrepiti ingoiano tutto tra liti dantesche, partono rombando verso Casablanca, Rabat, Fez. Melilla è zona economica speciale, senza tasse, tutto costa meno che in Marocco. Gli abitanti di Nador, che hanno la possibilità di entrare in città senza visto, vivono di questo infernale, tumultuoso contrabbando. Un vecchio si offre per 50 centesimi di compilare la mia richiesta di visto; lo lascio fare, è il suo lavoro. Ha molti clienti perché molti sono gli analfabeti.
Vegetazione selvaggia
La montagna di Gourougou sfuma quasi sul posto di frontiera. Ho faticato a trovarli, i migranti, arrampicandomi su per sentieri di pietra. Ma la polizia marocchina li bracca e si nascondono sempre più in alto, in gole sempre più impervie. Tutto questo versante spruzzato di polvere di sole, di luce, è ostruito da vegetazione selvaggia e vigorosa. Attraverso questo viluppo di pini ed eucalipti si incrociano, legandosi come maglie di catena, una moltitudine di piccoli sentieri polverosi che, visti dall’alto, somigliano a una grande rete stesa sul fianco del monte ad asciugare. Più giù, al di là delle linee delle case di Melilla, appare la tovaglia blu del mare.
Eccoli: un gruppo mi scende incontro, hanno in mano bottiglie di plastica, vanno a cercare l’acqua che sul monte non c’è. Hanno un aspetto di vergogna, di impudicizia senza scampo. È per me come rincontrarli ogni volta. Hanno dentro di loro la natura delle loro terre magre, le zolle scure e la sabbia dei deserti, le piste polverose, i greti bianchi nel sole tra gli argini alti di fiumi immensi, le acacie in fiore e i rovi. Questi sono i poveri dei poveri, hanno scelto questa via tra le tante perché non hanno i soldi per pagare il passaggio del deserto e della Libia verso il mare. Hanno camminato a piedi attraverso l’Algeria, lavorato a Tamanrasset e a Orano per pochi denari, e ora sono qui, sulla loro montagna, a centinaia, a migliaia. C’è tutta l’Africa dei derelitti «ma viviamo insieme come fratelli, dividiamo il poco che abbiamo…».
Tende di stracci
Le «tende» sono fatte di sacchetti di plastica, pezzi di cartone, stracci. Si odono strilli di bimbi e le voci pazienti delle madri. «Vieni ti mostro la mia casa – insiste Youssef e sembra avere l’orgoglio con cui mi mostrerebbe una reggia -. Sai come lo chiamo? Il bunker…». Scendono ogni mattina a Nador a chiedere la carità, per comprare un po’ di cibo e rientrano con il buio come le bestie, nella loro tana. La notte è gelata sulla montagna e non hanno vestiti e coperte. C’è gente che è qui da due, tre, cinque anni. Il problema è il cibo: mangiare. Uccidono le scimmie, e i cinghiali, per sfamarsi.
Posso offrire loro solo questo sollievo, essere qualcuno che ascolta. Chissà se nelle loro mitologie vi è un dio che non risponde, ma che forse sente, ascolta. Sarebbe già molto. «Ogni tanto la polizia e i soldati si scomodano e salgono fin qui, vengono all’alba per sorprenderci quando dormiamo… Noi fuggiamo nel fitto della foresta e loro bruciano tutto, tende coperte telefonini… Bruciano il nostro niente…».
La peggior colpa che abbiamo verso di loro è che li abbiamo plasmati e riplasmati, li abbiamo resi informi, e tali da non potersi più inserire in nessun altro destino. Chi oserebbe raccogliere queste anime sparpagliate, argilla confusa e screpolata, ovunque, da impronte di dita?
Parliamo della barriera, l’incubo, l’ossessione, le strategie per attraversare. «Qualcuno ce l’ha fatta, i compagni lo mettevano in un sacco, lo facevano dondolare e poi cercavano di gettarlo al di là. C’è chi nella caduta non si è rotto testa e gambe, si è alzato ed è fuggito prima dell’arrivo dei poliziotti spagnoli. Ma ora la barriera è troppo alta e troppo larga. Si può provare di notte in due o tre, arrampicandosi. L’ho fatto una volta ma sono rimasto bloccato tra i due reticolati. E allora vuol dire essere consegnati ai poliziotti marocchini. Mi hanno bastonato fino a farmi sanguinare le orecchie. Oppure ogni tanto in centinaia, migliaia si dà l’assalto: i poliziotti sono soverchiati, qualcuno riesce a scivolare via… Non resta che il mare, nuotare con l’aiuto di un copertone, ma l’acqua è gelata, la distanza infinita, c’è chi muore».
Parliamo di Dio, ci sono cristiani e musulmani: «Guardaci! Forse Dio si occupa degli uomini solo quando non ha altro da fare… Il mestiere di dio sono capaci tutti a farlo. Anche il Nulla… è capace di esser dio a questo modo».
Il ragazzo del Camerun
Scendo dalla montagna per tornare a Melilla. Scende la sera. È l’ora delle tenebre sul monte, la prova, l’ennesima. Cammina lentamente sul bordo della strada, appoggiandosi leggermente sui calcagni indolenziti. Ecco un nuovo ospite della foresta di Gourougou. Lo carico in auto, racconta con una voce impastata di infinita stanchezza come se sentisse ogni passo che ha compiuto risuonare nell’anima. Otto mesi di viaggio dal Camerun, i nigeriani gli hanno rubato il denaro, gli era rimasto il telefonino, l’ha venduto alla frontiera tra Algeria e Marocco, ha mangiato per l’ultima volta ieri. Cerca un destino degno di lui, dei suoi venti anni, della sua innocenza, della sua forza invincibile. Mi chiede, timido: «È difficile passare la barriera…?». «Sì, è difficile amico mio, molto più di quanto credi…».
Aspetta il buio per salire nella foresta, con discrezione. Gli regalo una bottiglia di latte: «Che dio ti accompagni…». «…E la pace…» mi risponde. Addio, sembra dire stringendo l’unica cosa che possiede, una bottiglia di latte. È la fine di quella lunga giornata che è durata otto mesi. Dici addio a tante cose dolorose e care, a tanti compagni rimasti indietro distesi nella sabbia e nel fango, a tante speranze, a tante sofferenze, a tutte le cose dolci e terribili di questa tua interminabile giornata. Ora hai una nuova casa: Gourogou.