Corriere della Sera, 31 dicembre 2015
In morte di Sabino Acquaviva, il sociologo preside a Padova durante gli anni di piombo
Correva l’anno 1979, quando il sociologo Sabino Acquaviva, scomparso ieri all’età di 88 anni, si trovò ad affrontare una delle situazioni più difficili della sua lunga carriera di intellettuale e accademico. La mattina del 7 aprile, all’alba, scattavano gli arresti disposti dal pm padovano Pietro Calogero nei confronti dei vertici dell’Autonomia operaia. Alla base del provvedimento vi era l’accusa, rivolta ai 21 destinatari della misura restrittiva, di avere «organizzato e diretto un’associazione denominata Brigate rosse». Grande impressione suscitò allora il fatto che fra coloro che erano stati colpiti dall’ordine di cattura vi fossero alcuni docenti della facoltà di Scienze politiche dell’Università di Padova, di cui Acquaviva era stato preside fino a poco tempo prima. Si trattava di collaboratori a vario titolo di Toni Negri, col quale essi avrebbero dato vita a una struttura responsabile degli attentati verificatisi a Padova nel biennio 1977-79. Fu coniata allora la dizione «cattivi maestri», per coloro che avrebbero abusato del loro ruolo di docenti per propagandare teorie aberranti, istigando gli studenti a commettere azioni delittuose.
Acquaviva, la cui facoltà veniva così presentata come il principale covo dell’intellighenzia sovversiva, era nato a Padova nel 1927 e vi era tornato dopo l’esperienza compiuta presso l’Università di Trento e, prima ancora, avendo svolto un’intensa attività manageriale quale direttore dell’organizzazione di vendita di una società licenziataria della Philips (di quel lavoro è testimonianza significativa un volume comparso nel 1958 per il Mulino, con il titolo Automazione e nuova classe ).
Quando esplode letteralmente il «caso 7 aprile», Padova è lacerata da un aspro conflitto fra due schieramenti contrapposti, entrambi indisponibili a ogni forma di mediazione. Da un lato i garantisti, sintonizzati sulla posizione assunta dall’allora giudice istruttore Giovanni Palombarini, in totale dissenso rispetto al «teorema Calogero». Sull’altro fronte, un gruppo di docenti, legati a un ampio arco di forze politiche (dalla Democrazia cristiana fino al Partito comunista), i quali sostenevano invece le ragioni della procura di Padova.
Pur trovandosi letteralmente al centro di uno scontro durissimo, in una facoltà attraversata da tensioni spesso sfociate in azioni violente, Acquaviva non venne mai meno ad una linea estremamente coerente, irriducibile ai due fronti in lotta. Anzitutto, egli rifiutò con forza la teoria dei «cattivi maestri», insistendo sulla correttezza del lavoro svolto in ambito didattico e scientifico dai docenti della facoltà, anche da coloro che erano stati arrestati. In secondo luogo, tentò (sia pure senza molto successo) di ricucire le fratture che una vicenda così intrinsecamente lacerante aveva introdotto nella vita dell’ateneo e della stessa città di Padova.
Questo atteggiamento scaturiva – è doveroso riconoscerlo – non da un intento opportunistico, o da una propensione pilatesca, ma da alcune convinzioni di fondo, ravvisabili anche nelle opere da lui scritte (complessivamente una trentina di volumi e centocinquanta articoli scientifici), che hanno accompagnato il suo lavoro di ricerca come sociologo. Risale al 1961 il testo, più volte ristampato e tradotto in varie lingue, che doveva segnalarlo fra i sociologi italiani più preparati e originali ( L’eclissi del sacro nella società industriale, Edizioni di Comunità), mentre fra gli scritti degli anni successivi, oltre a quelli che configurano una sorta di «teoria dei sentimenti» ( Eros, morte ed esperienza religiosa, Laterza, 1990; Il ministero della felicità, Cairo, 2011), spiccano soprattutto i testi di più dichiarato impegno politico ( La democrazia impossibile, Marsilio, 2002; La fine di un mito, Marsilio, 2009).
Come intellettuale Acquaviva, che fu a lungo collaboratore del «Corriere della Sera», non era un personaggio «facile». In particolare, nei dibattiti pubblici (ma anche nei suoi scritti), sembrava divertirsi a spiazzare gli interlocutori con un approccio deliberatamente minimalista, contrapponendo con fare a volte beffardo alla boria dei dotti una sorta di elementare buon senso. Prediligeva il basso profilo alle espressioni altisonanti. Mostrava concretamente di non credere ai riti di una sociologia che si pretenda onniesplicativa. Al dogmatismo saccente usava contrapporre il potere corrosivo dell’ironia. Probabilmente, non avrebbe accettato di essere descritto come un maestro del libero pensiero. Anche se, a rileggere la sua biografia intellettuale, si deve riconoscere che lo è stato più di quanto non volesse ammettere.