Corriere della Sera, 31 dicembre 2015
Così Dickens scrisse Dombey e il suo lieto fine
All’inizio del 1846, Charles Dickens firmò un contratto con l’editore Bradbury e Evans per un libro di cui sapeva pochissimo: sapeva soltanto che sarebbe apparso, via via che lo scriveva, in venti puntate di una lunghezza invariabile. Il tema sarebbe stato l’orgoglio. In primavera, affittò la casa di Londra e partì con la moglie Kate, la cognata Georgine, i sei figli (l’ultimo di sette mesi), tre domestiche e il cane Timber. Si imbarcò per Ostenda: discese il Reno fino a Strasburgo: prese il treno per Basilea e di lì, in carrozza, raggiunse Losanna. Qualche giorno più tardi, ricevette il suo scrittoio, e le statuette di bronzo che vigilavano sul suo lavoro; e scrisse al grande amico John Forster: «COMINCIATO DOMBEY!». Aveva trentaquattro anni, e un grande passato di romanziere. Forse Dombey e figlio sarebbe stato il suo capolavoro: un romanzo foltissimo, intricatissimo, colmo di risa e lacrime, come egli amava, e come noi ci aspettiamo ogni volta da lui.
Il libro si rivelò difficile, forse il più difficile tra i suoi libri. Doveva seguire moltissime strade, ramificazioni, meandri: tutti quelli che la sua fertile fantasia gli imponeva, a costo di perdersi; molti personaggi si precisavano e si trasformavano per strada. «Non potete immaginare – diceva – la mia infinita fatica, o quale straordinaria difficoltà provo, ad avanzare SVELTO… La pena, la fatica di scrivere, giorno dopo giorno, senza una lanterna magica, è IMMENSA. I miei personaggi sembrano inclini alla stagnazione, quando non sono circondati da folle». Per scrivere, aveva bisogno di una grande città intorno a lui: centinaia di strade, che lo circondavano il giorno, e che percorreva febbrilmente la notte.
Nel novembre 1846 salì di nuovo in carrozza: si arrestò alla porta dell’Hôtel Brighton, a Parigi, e poi a rue de Courcelles 48. Aveva un appartamento intermedio tra una casa di bambole, l’Ade, e una casa di fantasmi con una pendola ferma. Raggiunse la sua vera meta: fece una «colossale» peregrinazione notturna, che ripeté il giorno dopo, perdendosi cinquanta volte nel labirinto della Parigi di Luigi Filippo. Si sentiva a casa sua: parlava bene il francese, sebbene con un forte accento inglese: conosceva Louis Blanc, Michelet, Quinet, Dumas, Eugène Sue, Gautier, Alphonse Karr, Lamartine, Scribe. A rue du Bac visitò Chateaubriand vecchio e malato: terminò la giornata a casa di Victor Hugo, che lo ricevette «con una cortesia e una grazia infinita». Visitò le prigioni (come sempre, dovunque andasse), gli ospedali e soprattutto la Morgue.
Dombey e figlio ebbe un grande successo: ogni puntata era attesa con fervore e commozione; le vendite superavano le trentamila copie. Una lettrice scrisse: «Credevo che ci volessero tre o quattro persone per mettere insieme Dombey». Nei primi di gennaio 1847, dopo un lavoro accanito il giorno e la notte, Paul, il figlio bambino di Mr. Dombey, morì. Dickens scrisse a un’amica: «Paul se ne è andato venerdì sera verso le dieci, e siccome non avevo più speranza di dormire, sono uscito e ho camminato per le strade di Parigi fino all’ora della colazione l’indomani mattina».
Ritornò a Londra, al capezzale di un figlio malato, e poi tornò a Parigi e di nuovo tornò a Londra, dove continuò a scrivere il libro durante l’anno 1847 e il primo trimestre del 1848. «Viva la Rivoluzione! Viva il Popolo! Basta con i re», esclamò quando fu informato dello scoppio della rivoluzione a Parigi. La conclusione del libro fu ardua. L’interesse si era spostato su Florence, la figlia di Mr. Dombey. «Questo capitolo mi è costato terribilmente. La testa mi fa ancora male (scrivo all’una del mattino)». Come sempre, sebbene il suo cuore fosse occupato dal romanzo, Dickens aveva seguito moltissime strade: un racconto di Natale, la rappresentazione di un testo di Ben Jonson, una conferenza a Leeds sulla educazione delle masse, l’organizzazione di un focolare di ragazze perdute. Nel marzo 1848, la grande esplosione di estro e di genio si era esaurita: Dickens doveva soltanto decidere la sorte di Diogene, il vecchio cane.
Il personaggio principale del romanzo è Mr. Dombey. È alto, grosso, corposo, solenne: indossa un abito blu, una rigida cravatta bianca, un paio di scarpe scricchiolanti, ed è incapace di piegare e di sciogliere la propria durezza. Col passare degli anni, le radici del suo orgoglio si estendono e si nutrono di tutto quello che le circonda. Non ha amici, perché non ne ha bisogno. Ha un figlio, che ama con passione e tenerezza; e che, per lui, è l’incarnazione e il prolungamento della sua ditta, la Dombey e figli, che fa commerci con tutto il mondo visibile.
La casa di Dombey è grande ma senza sole: le finestre contemplano severamente i cortili e gettano loro degli sguardi torvi. La conosciamo bene nel corso di una festa: le stanze sono tenebrose e glaciali: sembrano portare il lutto coloro che le abitano; i libri, di un formato identico e disposti come soldati nelle loro uniformi fredde, dure e lucenti, partecipano all’abbassamento della temperatura. I cibi gelati della cena fanno male ai denti: il vino è così terribilmente freddo, che strappa ai commensali un piccolo grido; il vitello arriva da un’anticamera così gelida che, al primo morso, una sensazione di piombo freddo si diffonde nelle membra di tutti.
In questo mondo gelido e tenebroso, non ci sono sentimenti: o vengono subito soffocati; l’unico che resiste è l’orgoglioso desiderio di possesso, e il senso dello sforzo necessario per conquistare questo possesso. Il denaro sembra fratello della morte. La moglie di Dombey muore nelle prime pagine del libro, mentre nella stanza si ode soltanto il forte tic-tac dell’orologio del signor Dombey e di quello del dottore, che sembrano fare una corsa nel silenzio. Non c’è amore. C’è amore soltanto nel cuore della figlia, Florence, che soffre nella solitudine, piange, intenerisce tutte le cose e le persone che la circondano, ama il padre e non ne è riamata.
Intanto il figlio, Paul, cresce: cresce, ma ha un modo strano e vecchiotto di restare seduto a meditare. Ama restare solo: percorre, solo, i piani e le stanze della casa; rimanendo seduto sui gradini, ascoltando il grande orologio del vestibolo e trovando un senso segreto nei disegni della tappezzeria. Prova accessi di melanconia precoce: si sforza di penetrare il rosso paesaggio del fuoco con l’attenzione fissa ed estatica di un saggio; vorrebbe conoscere cosa si dicono le innumerevoli onde del mare. Dice a Florence: «Vorrei sapere quello che dice. Il mare, Flo, cosa dice continuamente». Florence gli risponde che è il suono delle onde. «Sì, sì, disse lui. Ma io so che sta sempre dicendo qualcosa: sempre la stessa cosa. Che cosa c’è laggiù, lontano?».
Infine Paul muore. Il silenzio regna in tutta la casa. Non si sente che lo scivolare leggero dei domestici che salgono e discendono le scale, attenti a non far risuonare i propri passi. Florence piange: ma quando ricorda il fratello morto, il suo viso si calma, la sua voce si addolcisce, la quiete si riflette nei suoi sguardi amorosi. Il padre si chiude, immobile, nella propria stanza gelata.
Al di fuori di questo tempo gelido e funerario, sta il mondo, presente e futuro, che irrompe gioiosamente e tragicamente nel libro di Dickens. Ecco i vagabondi, che penetrano lentamente e a caso dentro Londra: contemplano con i piedi indolenziti la città immensa davanti a loro, presentendo che la loro sofferenza non sarebbe stata che una goccia d’acqua nel mare. Girano per gli ospedali, i cimiteri, le prigioni: incontrano la folla, la follia e la morte; spinti da un fascino disperato, si perdono nella città e non ritornano più. Ecco la ferrovia e la sua costruzione: case abbattute, strade sventrate, masse di terra e d’argilla sconvolte, un caos di vetture, rovesciate e gettate a mucchi, con le ruote in aria, ai piedi di una improvvisa collina artificiale. Dappertutto porte che non conducono da nessuna parte, strade dove ogni circolazione è impossibile, torri di Babele giunte a metà dell’altezza, muri non terminati, deserti di mattoni, gru gigantesche, sorgenti calde, mari di fango. Di qui sarebbe passata la desolazione dell’ignoto futuro.
L’altro mondo è vastissimo. In primo luogo c’è Edith, la seconda moglie di Dombey, bella, fiera, fredda, maestosa ed orgogliosa: sfida la propria persona e il proprio orgoglio, indifferente a tutte le cose e a sé stessa. Edith non rifiuta di essere comprata da Dombey: accetta questa transazione sordida e miserabile: si degrada; ma non accetta di amarlo, di stimarlo, di obbedirgli e di rinunciare al proprio disprezzo verso di lui e verso sé stessa. In un momento supremo si rivela completamente ai lettori: sola nella sua stanza, colpisce con la mano il marmo del camino al punto di farla sanguinare, poi la tende lontano, verso il fuoco brillante, come se volesse gettarla e consumarla. «Ho pensato, dice alla madre, a un orgoglio impotente per il bene, onnipossente per il male: orgoglio che degrada il suo possessore con la coscienza di una profonda umiliazione». Dombey tenta invano di dominarla e di soggiogarla: Edith non gli obbedisce; anzi costringe il romanzo ad obbedirle, toccando un tono di tragedia e di grandezza, che a volte travolge trionfalmente il clima del libro.
Gli altri personaggi – Salomon Gills, Walter, il capitano Cuttle, la signora Mc. Singer – sembrano secondari. Ma posseggono l’estro, l’allegria involontaria, il senso del gioco e dell’avventura che permette loro di capovolgere il senso del grande libro. Essi preparano e annunciano il lieto fine, al quale tutti, anche Dombey e il cane Diogene e il figlio di Florence e Walter, partecipano. Non può esserci romanzo, pensava Dickens, senza il lieto fine: solo il lieto fine permette il libero scatenarsi del tragico, del comico, del pittoresco, del fantastico, dell’inverosimile.