Corriere della Sera, 31 dicembre 2015
Ruth Reichl, la figlia della regina della muffa che col cibo ha cambiato la sua vita. Storia di una critica gastronomica
Se non fosse diventata la critica gastronomica più famosa d’America Ruth Reichl avrebbe fatto l’insegnante di Storia. «È quello che ho studiato. Poi però con il mio primo marito mi sono trasferita da New York a Berkeley, ho cucinato in un ristorante collettivo, uno di quelli che andavano di moda negli anni Settanta, e ho cominciato a scrivere di cibo. Non sapevo nemmeno che esistesse la professione del foodwriter e per anni mi sono chiesta quando avrei iniziato a lavorare davvero». Sessantasette anni e un curriculum che hanno in pochi – critica gastronomica per il Los Angeles Times (1984-1993) e per il New York Times (1993-1999), direttrice di Gourmet, la rivista di cibo più raffinata degli Stati Uniti (1999-2009), vincitrice di sei James Beard Awards, i premi americani assegnati ai giornalisti di food, autrice di nove libri tra cui l’autobiografia bestseller «La parte più tenera» – Ruth Reichl non si prende mai troppo sul serio. Quando la definiscono «leggendaria foodwriter» risponde «volete dire vecchia, vero?». E quando le ricordano il suo potere – una sua recensione poteva decretare l’ascesa (o la fine) di un cuoco – si schernisce: «Era solo la mia opinione. Mi sono sempre vista come una donna con una famiglia e un lavoro, nient’altro». Eppure ha inventato un genere: è stata la prima a travestirsi per mangiare nei ristoranti senza farsi riconoscere. Una volta è andata da una truccatrice di Hollywood a farsi mascherare. Un’altra volta aveva addosso una parrucca e Julia Child l’ha riconosciuta, facendole fare una figuraccia: «È stato così umiliante», ricorda. I suoi non erano solo giudizi: erano «storie che ti facevano sedere a tavola con lei», come hanno scritto i suoi successori. Ma da pragmatica newyorchese la Reichl non ama troppo le lodi.
Vittima della crisi
C’è un solo argomento che riesce a farle perdere l’aplomb: la chiusura improvvisa di Gourmet, decisa da Condé Nast nel 2009. Al telefono, raccontando quei momenti, la sua voce di solito placida si vena di rabbia: «Quando me l’hanno comunicato mi sono sentita persa. Io non avevo più un lavoro. I 50 giornalisti che dirigevo non avevano più un lavoro. Ogni giorno, ancora oggi, mi chiedo che cosa avrei potuto fare per salvare la rivista. Forse mi sarei dovuta comportare in modo diverso con i manager. Ma dal punto di vista editoriale non mi pento». Con lei alla guida il magazine «che diceva alle persone ricche dove andare a mangiare» si è trasformato in una rivista di culto. Faceva politica gastronomica: un suo articolo era in grado di dettare una tendenza o di lanciare un grande tema. È stata la Reichl a commissionare allo scrittore David Foster Wallace l’inchiesta «Considerate l’aragosta», poi diventata una fortunata serie di saggi. Sempre lei ha chiesto a Michael Pollan di scrivere di cibo, ambiente, scelte alimentari. Ed è in uno dei suoi primi editoriali da direttrice, nel 1999, che compariva il nome di uno chef catalano «molto interessante»: un certo Ferran Adrià. Il mercato però ha avuto il sopravvento, gettandola in uno dei periodi più bui della sua vita: «Avevo 61 anni e non ero mai stata un giorno senza lavorare. Non sapevo che fare. Allora, come sempre quando sono depressa, sono entrata in cucina».
La nuova vita da romanziera
Ne è uscita con «My kitchen year: 136 recipes that saved my life», ricettario in cui spiega come si è rimessa in piedi dopo lo choc di aver perso il lavoro, e con il suo primo romanzo «Delicious!», pubblicato nel 2014 negli Stati Uniti e lo scorso ottobre in Italia con il titolo «Squisito!» (Salani). È la storia di una giovane giornalista che corona il suo sogno – lavorare nella principale rivista culinaria americana – ma che nel giro di pochi mesi perde tutto, perché il magazine viene chiuso. Ogni riferimento a Gourmet è, ovviamente, voluto. Nei nuovi panni della romanziera Ruth Reichl si trova a proprio agio: «Credo di essere sempre stata una scrittrice, solo che prima, da giornalista, il mio compito era rendere interessanti dei personaggi esistenti. Adesso invece i personaggi li devo creare da zero: molto difficile, ma che soddisfazione». In «Squisito!» la Reichl ha anche recuperato la sua formazione storica: si è rimessa a studiare carte e documenti per raccontare le discriminazioni subite dagli italoamericani durante la seconda guerra mondiale. «Venivano considerati dei nemici per l’alleanza con i tedeschi, sono stati a lungo esclusi dalla vita di comunità nonostante i loro figli fossero al fronte con l’esercito americano», spiega. E anche se per il libro non le è stata risparmiata qualche critica, lei non si fa scalfire: «Vale la stessa regola che valeva con le mie recensioni: opinioni personali».
I libri che curano
Ora è già al lavoro sul prossimo romanzo e sulla prossima autobiografia. Per lei la scrittura ha un valore catartico: tutti i momenti più dolorosi della sua vita sono finiti su carta. Per esempio quando ha dovuto «restituire» la figlia adottiva Gabriella perché la madre biologica aveva cambiato idea. Ruth lo racconta in «Comfort me with apples»: «Un momento orribile. Io volevo scappare, lasciare il Paese con lei, ma il mio secondo marito (Michael Singer, ndr ) non ha voluto. Abbiamo rischiato di separarci, poi per fortuna sono rimasta incinta, a 41 anni». Oggi suo figlio Nick è un regista 26enne: «Sono così orgogliosa di lui, se fosse diventato un noioso uomo d’affari sarei rimasta delusa». In «La parte più tenera», invece, il trauma da superare era il rapporto con la madre Miriam, soprannominata la «regina della muffa» tanto era incapace di cucinare: «Una volta ha dato una festa e ha intossicato 26 persone con del granchio andato a male. Credo di essermi appassionata al cibo come gesto di sopravvivenza: assaggiavo tutto quello che mamma preparava per capire se era commestibile, e se era troppo disgustoso cucinavo io». Quando Ruth ha cominciato a occuparsi di ristoranti per i giornali la madre le ha detto che stava buttando la sua vita. «Ma alla fine si è dovuta ricredere».