il manifesto, 30 dicembre 2015
Il divieto di fumare il narghilé a Gerusalemme, un caso politico
Misure volte a tutelare la salute o molestie con finalità politiche? Raed Saada se lo domanda da diversi giorni, da quando gli ispettori israeliani del comune di Gerusalemme, gli hanno fatto una multa di 5mila shekel (circa 1.200 euro) perchè il narghilè figura nel menù del ristorante nel giardino coperto del suo albergo, il Jerusalem Hotel, a poche decine di metri dalla Porta di Damasco. «È stato un controllo improvviso, mai avvenuto negli ultimi anni, al mio hotel e in decine di albeghi, ristoranti e caffè della zona araba della città», racconta Saada. «Gli ispettori mi hanno detto che il comune sanzionerà severamente i locali pubblici (palestinesi, ndr) che continueranno a violare il divieto di fumare», prosegue Saada «noi però ci chiediamo perchè, proprio ora, le autorità israeliane abbiano deciso di far rispettare questo divieto. E si accaniscono contro i narghilè che rappresentano una fonte di guadagno sicuro per decine di hotel e caffè nel settore arabo della città». Da quando gli ispettori israeliani hanno cominciato la crociata anti-narghilè a Gerusalemme Est, molti caffè hanno visto precipitare i loro incassi giornalieri, anche del 50%. Il Jerusalem Hotel potrebbe chiudere il ristorante. «Non riusciamo a reggere», spiega Saada «i costi aumentano e ora che i turisti stranieri e i palestinesi amanti della pipa ad acqua non vengono più, incassiamo troppo poco per andare avanti».
Fumare è nocivo, provoca malattie gravi. E i danni causati del fumo passivo sono significativi. Anche il narghilè è pericoloso per la salute. Allo stesso tempo questo strano e bellissimo aggeggio di vetro è il simbolo di una tradizione che va indietro di diversi secoli, è parte della cultura araba e non solo. Tanti turisti, anche quelli che non fumano, amano sedersi nei caffè popolari del Cairo, di Gerusalemme, di Istanbul, di Tehran e di tante altre capitali e città e provare ad aspirare, magari soltanto una volta, il fumo emanato dai tabacchi fruttati (“maassel”). Sono davvero pochi quelli che, in visita a Khan el Khalili al Cairo, hanno preferito non immergersi nella magica atmosfera del caffè Fishawi, uno dei regni del narghilè. In quel fumo profumato il premio Nobel Naguib Mafouz trovò l’ispirazione per scrivere alcune delle pagine più appassionanti dei suoi romanzi. «Certo il fumo fa male ma il narghilè è parte della nostra cultura. Al mio caffè ci viene proprio chi vuole fumare, palestinese o turista. Da quando sono cominciati i raid (degli ispettori comunali) ho perduto gran parte dei clienti palestinesi, non vengono più, il narghilè se lo preparano a casa. A queste condizioni chiuderemo presto», ci dice Maher, proprietario assieme ai fratelli di un piccolo caffè dalle parti della Spianata delle moschee.
Nafez, un cameriere, è convinto che gli israeliani stiano infliggendo «una punizione collettiva ai palestinesi». «Con il pretesto della salute pubblica colpiscono i nostri locali, la nostra economia, il nostro lavoro. In questo modo pensano di spegnere l’Intifada (cominciata a inizio ottobre, ndr) e la resistenza all’occupazione», afferma. Altri palestinesi parlano di un nuovo passo della campagna di “de-arabizzazione” di Gerusalemme Est. Altri ancora dicono che gli israeliani farebbero meglio ad interessarsi dei problemi nella zona ebraica della città, come la corruzione. Proprio ieri la Corte Suprema ha condannato a 18 mesi di carcere l’ex sindaco di Gerusalemme ed ex primo ministro Ehud Olmert, colpevole di essersi intascato una tangente da oltre 100 mila euro. Da parte sua Raed Saada ricorda che alberghi, ristoranti e caffè palestinesi hanno subito colpi durissimi negli ultimi anni. «Siamo costretti a vivere con le briciole della torta turistica, perchè i tour operator israeliani controllano il settore. L’occupazione, e tensioni vecchie e nuove fanno il resto».
I richiami alla cultura araba sotto attacco a Gerusalemme Est giungono mentre raccoglie adesioni ancora insufficienti l’appello per salvare un tempio della cultura palestinese, il Teatro al Hakawati. In passato i suoi cancelli spesso sono stati chiusi”per ragioni di sicurezza” dalla polizia, ora rischiano di restare sigillati a causa di un debito di 150mila dollari con l’assicurazione israeliana Migdal. La storia dell’al Hakawati è iniziata una quarantina di anni fa per iniziativa dell’attore Francois Abu Salem: il figlio di un diplomatico ungherese e di una donna francese, cresciuto fra Beirut, Gerusalemme est e Parigi dove ebbe modo di conoscere il Theatre du Soleil. Assieme ad altri artisti trovò la sede giusta, a pochi metri dall’American Colony Hotel, e diede vita ad programma di spettacoli che univano arte e politica. Dopo aver attraversato mari agitati per quattro decenni, ora il teatro al Hakawati rischia di affondare. La salvezza potrebbe arrivare dall’Unione europea.