il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2015
Trent’anni di targhe alterne e demagogia
Digitando le parole “targhe” e “alterne” sull’archivio dell’Ansa, si ottengono 2.120 notizie in 34 anni: la prima è del 17 dicembre 1981 e riguarda il Comune di Napoli, dove il prefetto Riccardo Boccia limitò il traffico privato per un mese e, siccome era spiritoso, consentì alle auto con targa pari di circolare nei giorni dispari e viceversa. Ma il movente non era lo smog, bensì “le preesistenti carenze della rete viaria di Napoli, aggravate dalla chiusura al traffico di strade e piazze cittadine, per la presenza di edifici pericolanti, nonché di ulteriori intralci costituiti da lavori di riattazione e dalla realizzazione di opere pubbliche, che hanno reso insostenibile le condizioni del traffico”. L’esempio fu presto seguito da Palermo e Bari. E via via dalle altre metropoli. Chi circolava con l’auto sbagliata finiva addirittura nel penale ed era condannato dal pretore (capitò persino a un frate che portava l’estrema unzione a un moribondo, e a nulla gli valse difendersi facendo osservare che il sacramento, per essere valido, dev’essere somministrato prima del decesso, non dopo). Finché alcuni pretori partenopei sancirono che le targhe alterne erano illegittime, subito contraddetti da altri pretori baresi che ne confermarono la liceità.
Nell’87 si iniziò a parlare di dimezzare il traffico anche a Roma, dopo l’allarmante rapporto dell’Istituto superiore di Sanità commissionato dal pretore verde Amendola. Che escludeva il rischio di tumori per i romani, suggeriva di “scoraggiare il traffico nel centro impedendo la sosta prolungata” e di “fluidificare la circolazione anche “con le targhe alterne”. Apriti cielo. Le parole “targhe” e “alterne” scatenarono un’epica battaglia politica: favorevoli la Dc (col sindaco andreottiano Giubilo, un imbranato antesignano di Tronca) e il Psdi, e dunque i socialisti contrari. I Verdi, ferocemente avversi, minacciarono ricorsi al Tar. I comunisti abbastanza sul no, ma a targhe alterne. La giunta capitolina diventò una bolgia. Alla fine il sindaco impose il sì, ma il consiglio comunale gli bocciò l’ordinanza. La battaglia traslocò su scala nazionale, con scambi di accuse sul Popolo, l’Avanti! e l’Unità.
Le cronache di 30 anni fa paiono scritte oggi. Stessi argomenti frusti, stessa demagogia, stessa incompetenza. Chi parlava delle targhe alterne come misura-tampone per ridurre lo smog, chi ribatteva che “occorre ben altro” senza penalizzare cittadini e commercianti (sul piede di guerra, al solito), chi invocava “misure strutturali” per risolvere il tutto “a monte”.
Da allora, non si contano i vertici di maggioranza, i tavoli, i piani straordinari, i pacchetti antismog, i progetti di fattibilità, gli stanziamenti straordinari, i dibattiti, i convegni, gli studi epidemiologici che dimostrano tutto e il contrario di tutto. E naturalmente le proposte alternative, quelle “strutturali”, all’insegna del “fàmolo strano”: blocchi del traffico totali o parziali, domeniche a piedi con biciclettata incorporata, centri storici chiusi o accessibili con ticket o pedaggio, marmitte catalitiche, benzine verdi od “ossigenate”, carburanti ecologici, combustibili puliti, piani parcheggi, tasse d’ingresso, le zone blu Ztl, direttrici di scorrimento, corsie preferenziali, itinerari protetti, taxi bus, car pool, car sharing, ecoauto, veicoli elettrici, bici comunali, e naturalmente “puntare tutto sui mezzi pubblici” e “potenziare il servizio taxi”. Poi però arrivava la pioggia, o la neve, o il vento e tutti si scordavano lo smog fino alla prossima “emergenza”. Nel 1990 le targhe alterne profanarono anche il tempio dell’auto, Torino. E a fine anno capitolò anche la riottosa Milano da bere e da avvelenare. Nel ‘92 il governo Andreotti abolì le targhe alterne e impose per 4 mesi nelle 11 maggiori città italiane “misure drastiche che vanno alla radice del problema”, come assicurò il ministro Ruffolo. Durò 24 ore, poi l’esecutivo riautorizzò le targhe alterne. “Una buffonata elettorale”, tuonò Veltroni, che 10 anni dopo ne fece massiccio uso (“è l’unica possibilità che abbiamo per difendere la salute dei cittadini”). Negli anni ‘90 le targhe alterne esordirono a Pechino e nei 2000 anche a Teheran e Baghdad.
Memorabile una dichiarazione del sindaco di Torino Chiamparino alla Stampa, giornale della Fiat, addì 14.2.2002: “Diversamente da Albertini a Milano, io non adotterei mai una circolazione dimezzata così lunga e punitiva. Ma sotto la Mole si respira un’aria diversa da quella milanese”. Infatti Torino, sotto di lui, divenne la seconda città più inquinata d’Europa. Nel 2003 Legambiente comunicò: “Questo dev’essere l’ultimo anno delle targhe alterne”. Certo. “Le targhe alterne non servono”, disse nel 2005 il ministro Matteoli, premio Attila fisso: meglio “rottamare i vecchi veicoli” e puntare sulle “tecnologie”, come no. Infatti subito dopo esortò i sindaci alle targhe alterne (“hanno poche alternative”). Poi venne Clini, tecnico di Monti: “Misure straordinarie per il trasporto delle persone per liberare le città dall’assedio esterno delle auto”. Nel mentre, finì in galera. La Moratti, da Milano, lanciò la supercazzola della pollution charge. E nel 2011 la Lega promosse un referendum fra i cittadini per chiederle le targhe alterne per tutto febbraio. L’idea era di un consigliere comunale molto agguerrito: “Siamo sicuri che i milanesi, come coloro che vengono a Milano per lavorare, sapranno organizzarsi al meglio volendo dare priorità assoluta al miglioramento della qualità dell’aria e alla buona salute dei nostri bambini”. Era lo stesso che l’altro giorno, appena un po’ appesantito, ha definito le targhe alterne di Pisapia “una cazzata che non risolve i problemi dell’aria, ma disturba solo chi vorrebbe lavorare”. Il suo nome era Matteo Salvini.