Corriere della Sera, 30 dicembre 2015
Si avvicina la fine della password, tra pillole da ingoiare e microchip da impiantare
Molti di noi scelgono «password», altri una serie di numeri come «123456», altri ancora la propria data di nascita. La password proprio non ci va giù: da sempre gli esperti raccomandano di selezionare una frase sensata e facile da ricordare che contenga maiuscole, minuscole, numeri e simboli (geniale il suggerimento di Edward Snowden: «MargaretThatcheris110%SEXY») ma la maggior parte di noi prosegue per la sua strada mettendo a repentaglio i propri dati.
Tante aziende quindi stanno studiando sistemi alternativi e l’ultimo, in ordine di tempo, arriva da Google. Ancora in sperimentazione presso una ristretta cerchia di utenti, è semplice e diretto. Quando si tenta di effettuare l’accesso al proprio account, si riceve una notifica sullo smartphone che chiede se siamo proprio noi a voler entrare. Una volta ricevuta risposta affermativa le porte del sito si aprono automaticamente dandoci pieno accesso senza bisogno di digitare nulla.
È la fine della password? Ancora non del tutto. Il sistema, infatti, presuppone che il nostro telefono sia connesso a Internet, cosa spesso difficile all’estero, e poi c’è l’eventuale batteria scarica del dispositivo. Ma è vero che nella vita quotidiana questo esperimento può risultare comodo e sicuro, visto che non serve più ricordare nulla o inventare curiosi esercizi di stile.
Viso e impronte
La ricerca di un’alternativa comunque va avanti. Yahoo! per esempio ha appena presentato «Account Key»: il funzionamento è simile a quello di Google e si basa sempre su notifiche via smartphone.
Il sistema operativo Android offre da tempo la «Sequenza di blocco» in cui, per sbloccare il dispositivo, dobbiamo tracciare sul display un disegno che colleghi tra loro da quattro a nove punti di una griglia. Funziona ed è rapido ma è utilizzabile solo su uno schermo sensibile al tocco.
Apple è stata invece tra le prime grandi aziende a puntare sull’impronta digitale. È ancora più rapido del sistema precedente ma va da sé che ha bisogno di un lettore, spesso assente dai computer.
Ecco allora entrare in gioco il riconoscimento facciale: qui la webcam del computer o la fotocamera di smartphone e tablet registrano i caratteri somatici e consentono l’accesso soltanto agli utenti autorizzati. Il bello è che non si deve toccare nulla ma è un sistema ancora lento, ha bisogno di tanta luce ambientale perché la fotocamera possa captarci a dovere e spesso basta assomigliare a qualcuno per penetrare nel dispositivo altrui.
La pillola connessa
Più potente (ma fastidiosa) la verifica in due passaggi, al momento, è il sistema di protezione più sicuro. Dopo la password dobbiamo inserire un secondo codice inviato tramite email e sms o generato da un’app. Chiunque acceda online al proprio conto bancario l’ha provata e si sarà accorto del problema: è lento e comprende comunque una password. Ecco quindi le soluzioni hardware come anelli, collane o più banali chiavette Usb da inserire nel computer per dimostrare la nostra identità; ma c’è perfino chi ha pensato a un chip impiantato nel corpo che si connette ai dispositivi via Bluetooth, oppure a una pillola da ingoiare. Entrando in contatto con i succhi gastrici questa si attiva ed emette un segnale che garantisce l’accesso ai dispositivi compatibili.
La vecchia sequenza
Va detto che nonostante l’urgenza di trovare una soluzione e la potenza delle forze impegnate in questa lotta, un vincitore oggi ancora non c’è. Il sistema di Google al momento appare un ottimo protagonista di quella morte annunciata che sembra non arrivare mai. Per ora infatti la vecchia sequenza di lettere, numeri e simboli continua imperterrita il suo dominio, con buona pace di Margaret Thatcher e del suo essere «110% sexy».