Corriere della Sera, 30 dicembre 2015
La richezza di Paolo e Francesca
Dante, oltre ad avere un’esperienza d’amore nel campo pratico, l’aveva anche nel campo artistico. Ora, malgrado la professione di spontaneità fatta dal poeta a Bonaggiunta da Lucca; malgrado che nei suoi versi ci siano novità e freschezza; si deve riconoscere che la scuola stilnovista aveva un po’ standardizzato l’amore. Fortunatamente, di ciò vi è solo un ricordo nella Commedia, un tentativo d’inquadrare la vicenda amorosa di Francesca negli schemi dello stil novo. È un tentativo però che possiamo anche spiegarci altrimenti. Sono quelle terzine che cominciano con la parola «Amore...» e che sono immeritatamente le più famose del canto. Del resto, un adulterio mal s’adattava ad essere incluso nei concetti dell’amore puro e della donna angelicata. Dante conosceva anche altri esempi di letteratura amorosa. C’era la lirica provenzale, ma aveva un convenzionalismo congenito – degenerato poi nei seguaci italiani – ed anch’essa mal poteva adattarsi ad un adulterio. Più importanti sono invece i romanzi della Tavola Rotonda, che Dante, specialmente in questo canto, mostra di conoscere ed apprezzare. Essi ancor oggi sembrano a noi pieni di vivacità e di grazia, ma mancano di vita interiore, e i sentimenti vengono espressi, più che con pensieri, con atti, talvolta ripetuti fino a sazietà. Non so giudicare fino a qual punto Dante abbia preso da tale letteratura, certo è che ha saputo ad ogni modo evitarne i difetti, perché il più grande pregio del suo episodio è la ricchezza intima dei personaggi che vi partecipano.
La qualità che sopra tutte spicca in Francesca è la sua femminilità. Nella Commedia le donne non sono molto numerose, né molto felici. Alcune non sono affatto femminili, come la Sapia senese del canto XIII del Purgatorio e Cunizza da Romano del canto IX del Paradiso; altre sono talmente trasfigurate dall’allegoria, da diventare addirittura dei mostri, come le virtù che stanno attorno al carro della Chiesa, tre delle quali hanno la pelle o bianca, o rossa, o verde, ed un’altra ha perfino tre occhi. Piene di grazia, e non molto sciupate dall’allegoria, sono Lia e Matelda del Paradiso Terrestre. Beatrice invece, che pur era scesa nel Limbo bella e innamorata – «amor mi mosse, che mi fa parlare» [Inf., II, 72] —, è tanto colma di sapienza e di divinità, che da una parte diventa un trattato di teologia, dall’altra un continuo sfavillio di sorrisi e di sguardi che imparadisano Dante, ma che lasciano noi piuttosto indifferenti. Due sole donne si possono avvicinare a Francesca: una è la dolce, umile Pia de’ Tolomei che fa una rapida apparizione nel V canto del Purgatorio, l’altra è la delicata, evanescente Piccarda Donati che illumina di sé il canto III del Paradiso.
Francesca non è propriamente una lussuriosa: è una donna vinta dalla passione, non traviata dal vizio. E il poeta ce la presenta come una piccola cosa, palpitante di sentimenti umani, tormentata non tanto dalla bufera infernale, quanto dall’altra bufera che essa porta nel cuore. A parte il fatto che Dante non riesce a convincerci dell’orrore della pena inflitta ai lussuriosi, noi vediamo Francesca al di fuori della bufera. Il vento si tace. Il moto vorticoso che continua a trasportare le anime degli altri dannati, le fa solo da sfondo. E noi sentiamo che esso, con la sua materiale violenza, non potrà mai torturarla. Ma è il suo amore, che la tortura.
L’amore umano è un’avvelenata mistura, è fatto di gioia e di sofferenza. Gioia per quello che si dona e per l’illusione di eternità che esso porta con sé; sofferenza perché si vorrebbe donare di più e perché, malgrado l’illusione, si teme sempre della sua incertezza. L’amore di Paolo e Francesca ha perduto l’incertezza: essi sono diventati un essere indissolubile per tutta l’eternità. Le parole della donna sono dette anche dall’uomo – «Queste parole da lor ci fur porte» [Inf., V, 108] – e il pianto dell’uomo – tragico personaggio muto – è l’espressione del patimento di entrambi. Ha perduto l’incertezza, ma ha acquistato sofferenza. Perché quelle anime, la cui aspirazione sarebbe di donarsi una gioia senza fine, sono invece dannate a darsi un tormento senza fine, a stare eternamente l’una a fianco dell’altra, mentre sono l’una la causa della miseria dell’altra. La gioia è rimasta nel mondo che ride, ed il suo ricordo diventa ora un angoscioso rimpianto. Pace, pace è la parola che Francesca ripete, quasi di seguito. È l’aspirazione più viva della sua anima – ma la chiede non per quel vento che l’aspetta, ma per il suo affanno, per il suo martirio. E man mano che questo martirio si rivela nella sua essenza, anche la pietà di Dante, che da principio sembrava incerta, si accentra tutta nel dramma di Francesca, di cui la bufera infernale è solo un elemento secondario.
Dopo il preambolo piuttosto lungo, il racconto di Francesca è breve. Fa la descrizione della sua terra – immagini di pace che velano la malinconia di cose belle perdute per sempre. Poi narra il suo peccato, in poche frasi stilizzate: sembra che non voglia indugiare, per non inacerbire la sofferenza. Tuttavia il suo riserbo è vano. Dante le chiede di parlare ancora, vuol conoscere il momento più bello e più delicato dell’amore, quando i cuori sono pieni di ansia e di dubbio, e ciascuno sente dentro di sé un sentimento che indovina, ma non vuol riconoscere, e ad esso si abbandona perché spera di trovare la propria salvezza nella saggezza dell’altro. L’amore è solo tentazione; non è ancora peccato, ma è più dolce del peccato. Il tempo dei dolci sospiri. A Francesca costa dolore parlare: ogni pensiero che ricordi la felicità passata non fa che inasprire la miseria presente. Ma parla perché il suo animo gentile non può fare a meno di accondiscendere alla preghiera di Dante. Il racconto è semplice, senza alcuna volgarità. Un giorno leggeva assieme a Paolo un romanzo d’amore. Erano soli e senza alcun sospetto, perché l’amore non era ancora degenerato in passione, e avevano mantenuto segreto il loro sentimento e speravano forse di poterlo sempre tenere nascosto nel cuore. Ma la lettura compie il facile miracolo. Quando arrivano al punto in cui i due nobili protagonisti si baciano, essi non sanno trattenersi dal fare altrettanto, e naturalmente rimandano la lettura ad altra occasione. Così finisce il racconto di Francesca, ed un antico commentatore annota: «Accenna con nobil modestia l’interrompimento della lettura, ed in conseguenza il passaggio dai tremanti baci agli amorosi abbracciamenti». Vi è, alla fine, una rapida condanna – «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse» [Inf., V, 137] – così come con una condanna similmente rapida si era conclusa la prima parte del racconto – «Caina attende chi a vita ci spense» [Inf., V, 107]. Sono parole veloci, inesorabili, e tuttavia pronunciate quasi senza odio, come frutto di un giudizio troppo giusto per avere del sentimento. E sono parole che non nuociono a Francesca, perché ce la fanno apparire più donna, più vicina a noi.