Corriere della Sera, 30 dicembre 2015
L’Inferno secondo Giuseppe Berto. Era il 1943 nel campo texano di Hereford quando interpretò il V canto per i prigionieri
N on aveva trent’anni Giuseppe Berto, quando il 9 maggio del 1943 sul fronte tunisino la V armata crollò e nei giorni successivi i soldati, comprese le truppe ausiliarie delle Camicie nere, dovettero arrendersi e consegnarsi al nemico a Enfidaville, per poi finire nel campo di raccolta di Casablanca, da dove, ai primi di luglio, mosse il convoglio che li trasferì negli Stati Uniti.
Berto era partito volontario per la guerra d’Africa nel 1935 e da allora, salvo una parentesi tra il ‘40 e l’inizio del ‘42 che gli consentì di laurearsi e di esordire come narratore, restò in divisa per oltre un decennio, giocandosi in questo modo l’intera giovinezza: la lunga prigionia nel campo di Hereford nel Texas – rimpatrierà soltanto a fine febbraio 1946 – divenne così la stagione della sua maturità, il tempo sospeso in cui scoprire una vocazione e chiarirsi le idee sul mondo, una specie di «collegio» nel quale cementare amicizie, compiere scelte decisive e prepararsi ad affrontare la vita.
Il campo era grandissimo e destinato solo ai prigionieri italiani, che in breve tempo divennero addirittura 7.000, ai quali gli americani riservarono un trattamento rispettoso, che tuttavia li condannava all’ozio e all’inedia, non avendo assolutamente nulla da fare se non presenziare all’appello al risveglio, cosicché ciascuno di loro doveva ingegnarsi per riempire il resto della giornata con qualche attività che desse un senso all’esistenza e aiutasse a preservare la salute e la dignità.
Gli esercizi fisici e la lettura divennero dunque il principale rifugio di una comunità di giovani uomini condannati all’isolamento lontani da casa, che cercavano anche di sviluppare una sorta di vita sociale nella quale valessero ancora le regole di una convivenza solidale, a partire da una divisione dei compiti e delle responsabilità: certo da leggere c’erano i molti libri per i quali non c’era stato mai tempo, ma attraverso di essi non era facile allargare e arricchire le relazioni interpersonali e ancor meno animare discussioni e confronti sulle molte questioni che il futuro suggeriva nella sua inevitabile incertezza.
Avvenne così che un po’ alla volta più di qualcuno si mettesse a scrivere e che questi scritti venissero poi raccolti in fogli che manoscritti passavano di mano in mano, trasformandosi in veri e propri giornali periodici nei quali si identificavano e riconoscevano i vari gruppetti di prigionieri, che intanto si costituivano attorno a interessi o posizioni comuni – il più importante dei quali si intitolò «Argomenti» —: molti ovviamente riflettevano su quanto era successo o ancora accadeva mentre la guerra continuava tra soprassalti spesso sorprendenti, altri più ambiziosamente si cimentavano in testi inequivocabilmente letterari, poetici e narrativi, dove la memoria e l’immaginazione si sfogavano liberamente, spesso arrischiando bilanci o progetti sui propri destini.
Berto, che a Mogliano Veneto in quel 1940 da reduce aveva scritto e pubblicato in quattro puntate – 17, 18, 21 e 24 settembre – sul «Gazzettino sera» il suo primo racconto intitolato La colonna Feletti, dove rievocava le paure, le sofferenze e le tragedie della guerra d’Africa, sollecitato dall’esempio degli amici che intanto si era fatto – Gaetano Tumiati, Dante Troisi, Alberto Burri, Ervardo Fioravanti – era tornato a quegli anni cercando di lasciar da parte le tristezze e le malinconie per trovare accenti più divertenti e camerateschi, tanto da avviare una serie dal titolo 13 deflorazioni 13, che si annunciava «smaccatamente» pornografica, ma poi si era subito arenata nello struggimento di sentimenti sin troppo inteneriti e di complessi tormenti, di insopprimibili «intendimenti moralistici», come attesta l’unica rimasta e pubblicata, Economia di candele.
Venne poi la volta di racconti sempre più ampi e strutturati, fino ai primi romanzi, nei quali lo scrittore si sente pronto a costruire un mondo intero che contenga emozioni e pensieri, speranze e progetti, e persino giudizi sulle responsabilità collettive e individuali: da Sosta a Cassino a Il seme tra le spine, da Le opere di Dio a La perduta gente, che nell’edizione di Longanesi diventerà Il cielo è rosso (1948).
Intanto i prigionieri occupavano il loro tempo anche organizzando corsi sui temi più disparati o cicli di conversazioni più o meno letterarie e Berto, che, sempre in quel 1940, dopo la laurea aveva fatto per qualche mese il supplente in un istituto magistrale a Treviso, si mise alla prova anche come conferenziere, dapprima leggendo e illustrando alcune poesie di d’Annunzio, scelte tra quelle più intime come Il novilunio di settembre o qualche passo del Poema paradisiaco, e poi persino interpretando – il 6 novembre 1943 – il V canto dell’ Inferno dantesco, quello di Paolo e Francesca, «sostenendo – racconterà vent’anni dopo – il punto di vista che aveva un bel dire Dante che i suoi lussuriosi erano condannati ad atroce castigo: per i reclusi del campo di Hereford, quell’essere sbattuti a coppie nella bufera incessante appariva più che altro un diletto».
Ora, riordinando le carte del suo archivio, recentemente acquisito dall’Associazione «Amici di Giuseppe Berto» e depositato nell’Archivio degli Scrittori veneti del Dipartimento di Studi linguistici e letterari dell’Università di Padova, la moglie Manuela ha ritrovato il manoscritto di quell’antica lezione, della quale pubblichiamo uno stralcio fedelmente trascritto – il testo integrale uscirà prossimamente su Lettere Italiane —, e commuove il pensiero di quella ricerca di identità nelle pagine della più solenne tradizione italiana, rivisitate con puntuale attenzione, ma anche con straordinaria empatia, affinché in esse potesse rispecchiarsi non solo l’improvvisato esegeta ma anche e, vien da dire, soprattutto il suo pubblico, che nel deserto texano non poteva non sentirsi smarrito e insicuro e cercava pertanto in quei versi celebri e antichi un punto di riferimento, un sentimento di appartenenza, cui affidarsi fiducioso.
Non si creda che queste poche pagine, cui si aggiungevano una scelta di citazioni dalla Commedia e gli appunti da una conferenza dantesca di Alessandro Manzoni a testimoniare l’essenzialità della bibliografia disponibile, valgano ad arricchire la critica di inedite prospettive o di innovative interpretazioni, piuttosto esse offrono testimonianza, per l’eccezionalità della situazione nella quale vennero concepite e redatte, della resistenza del magistero e della guida che la Divina Commedia, nonostante i vincoli della sua cultura «medievale» così lontana dalla sensibilità dei nostri tempi, seppe sempre offrire a tanti lettori, ricordando loro l’incontrastabile forza dei sentimenti e dell’amore sopra tutti: la donna vinta dalla passione nell’isolamento della prigionia perde qualsiasi traccia del suo peccato diventando piuttosto l’eroina di un’avventura che tutti travolge, rinnovando emozioni che non possono apparirci colpevoli.