la Repubblica, 29 dicembre 2015
Cosa si poteva fare di diverso nel pasticcio delle banche? E cosa si può fare ora?
Il clamore per la vicenda delle quattro banche salvate il mese scorso grazie a un decreto del governo è a prima vista difficile da conciliare con l’importanza che le stesse ricoprono all’interno dell’economia nazionale.
I quattro istituti – Banca Etruria, Banca Marche, Cari-Chieti e CariFerrara – possiedono appena l’1 per cento degli asset bancari italiani. Il costo dell’operazione, interamente fronteggiato da privati, è intorno ai 4 miliardi di euro, soltanto il 2,5 per mille del nostro prodotto interno lordo. I risparmiatori coinvolti – e che hanno visto i propri investimenti azzerati – sono secondo alcune stime circa 140.000, meno di un italiano su 400.
Queste cifre esigue nascondono però la reale portata economica e politica dell’intervento. Il provvedimento va a toccare il risparmio privato, uno dei pilastri forti della malmessa economia italiana e un vero tabù per l’elettorato. Il coinvolgimento degli investitori scoperchia i rischi che un sistema del credito vulnerabile presenta per i cittadini, minandone la fiducia verso le banche e i regolatori.
Infine, lo scontro tra il governo di Matteo Renzi e la Commissione Europea sulla responsabilità delle misure contribuisce ad alimentare quel senso di perdita di sovranità che da anni spinge l’elettorato nelle braccia dei partiti euroscettici.
Il paradosso è che il decreto appare nelle sue linee guida come un ragionevole compromesso fra tre vincoli: la dura realtà della finanza pubblica italiana; le nuove regole concordate con Bruxelles per limitare la socializzazione delle perdite bancarie; e le ragioni della politica che deve, ove possibile, tenere conto dell’impatto di misure drastiche anche su alcune minoranze, in questo caso gli obbligazionisti ordinari, salvati da risorse provenienti da altre banche e grazie a una garanzia della Cassa Depositi e Prestiti.
Le alternative proposte dalle opposizioni – improvvisamente riscopertesi a favore dei salvataggi pubblici dopo averli criticati per anni – non sono solo impraticabili all’interno del perimetro concordato con la Commissione, ma risultano anche miopi ed inique.
Un eventuale rimborso di tutti gli azionisti e gli obbligazionisti da parte dello Stato potrebbe essere finanziato soltanto in tre modi: aumentando la già alta tassazione per tutti i contribuenti; tagliando la spesa pubblica in aree, per esempio, come sanità, istruzione e sicurezza; oppure aumentando il nostro enorme debito pubblico. L’esiguità delle cifre in discussione non costituisce poi un alibi, poiché si creerebbe comunque un pericoloso precedente per salvataggi futuri, magari più sostanziosi.
In alternativa, l’intervento del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi – ipotizzato anche dallo stesso governo, prima di essere bloccato dalla Commissione – avrebbe implicato utilizzare risorse che servono a tutelare i conti correnti sotto i 100.000 euro in caso di nuove crisi. Una scelta di questo tipo sarebbe inoltre stata paradossale in un momento in cui l’Italia si sta giustamente spendendo perché l’eurozona migliori il progetto di unione bancaria e metta in comune questi salvadanai nazionali. Rompere il nostro per rimborsare degli obbligazionisti avrebbe mandato un segnale di poca serietà, rendendo ancora più difficile questa importante battaglia.
Questo non vuol dire che il decreto del governo sia stato ineccepibile. Per esempio, la garanzia concessa dalla Cdp espone l’istituto e dunque i risparmiatori postali a perdite che potrebbero materializzarsi negli anni a venire.
L’errore principale è stato comunque cercare di scaricare la colpa del provvedimento sull’Europa, creando una sensazione diffusa fra l’elettorato che potessero esserci delle alternative indolori. La verità è che qualsiasi soluzione avrebbe reso qualcuno più povero. Penalizzare gli investitori – che avrebbero beneficiato di dividendi e rendimenti ove le banche fossero andate bene – è la soluzione più giusta in questa orrida scelta.
Restano, ed è palese, quelle situazioni in cui risparmiatori ignari sono stati vittime di truffe da parte delle banche, magari sotto l’occhio poco attento dei supervisori. Nell’ultima settimana, centinaia di cittadini hanno protestato davanti alle sedi di Banca Etruria ad Arezzo e della Banca d’Italia a Roma, chiedendo la restituzione dei propri soldi. Per alcuni di essi, il governo ha previsto un fondo di 100 milioni, ma questa misura non può né deve sostituire l’accertamento delle responsabilità individuali e istituzionali per quanto è accaduto.
La durezza verso gli investitori intrinseca nel principio del cosiddetto “bail in” va infatti accompagnata da una attenta disanima dei comportamenti di banchieri e regolatori. E se la magistratura sta già giustamente intervenendo per sanzionare eventuali responsabilità penali, un sistema che voglia mantenere la fiducia dei cittadini deve necessariamente indagare su se stesso.
La prima risposta deve venire dai supervisori stessi, specie quando, come nel caso della Banca d’Italia e della Consob, essi beneficiano del privilegio dell’indipendenza. Prima ancora di possibili inchieste parlamentari, che ove venissero avviate dovranno comunque essere attente a salvaguardare questo importante principio, gli organi di vigilanza dovrebbero avviare delle indagini interne per accertare eventuali colpe o negligenze. La guida dell’esercizio potrebbe essere affidata a un esperto straniero, meglio se proveniente da un paese al di fuori della zona euro, in modo da limitare il rischio di conflitti d’interesse.
Dal primo gennaio, le nuove norme europee estenderanno il principio del “bail in” a tutti gli obbligazionisti e ai correntisti sopra i 100.000 euro. Il rischio è che in futuro la vicenda delle quattro banche possa essere ricordata con invidia da risparmiatori che dovessero subire perdite su prodotti assai meno rischiosi di quelli colpiti quest’autunno.
L’unica risposta possibile per il governo e le istituzioni di vigilanza sta in un’operazione di reale trasparenza, che spieghi le molte ragioni dietro le nuove regole, senza nascondersi dietro l’alibi europeo; chiarisca al più presto le responsabilità anche istituzionali di quanto accaduto, punendo, senza insabbiamenti, eventuali responsabili; e modifichi le regole in vigore per minimizzare il rischio di truffe nei confronti dei piccoli risparmiatori.
Solo così la crisi di questi giorni potrà essere riportata nelle dimensioni ridotte che dovrebbero spettarle.