il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2015
Qualcuno salvi gli antichi vicoli di mare cantati da De André
Addio crêuza de ma. Strano destino: in Italia – e non solo – tutti le conoscono, le percorrono con la fantasia cantando il capolavoro di Fabrizio De André. Ma gli antichi vicoli di mare a Genova e in Liguria stanno morendo: mangiati dalle alluvioni, dalle frane; invasi dalla vegetazione. Basta salire sulla collina di Sant’Ilario, forse proprio dove Bocca di Rosa scese alla stazione (ormai chiusa) e tutti si accorsero con uno sguardo che non si trattava di un missionario. Pochi passi, lasci il piazzale della chiesa, imbocchi la scalinata. Rovine.
Addio crêuza de ma. Strano destino: in Italia – e non solo – tutti le conoscono, le percorrono con la fantasia cantando il capolavoro di Fabrizio De André. Ma gli antichi vicoli di mare a Genova e in Liguria stanno morendo: mangiati dalle alluvioni, dalle frane; invasi dalla vegetazione. Basta salire sulla collina di Sant’Ilario, forse proprio dove Bocca di Rosa scese alla stazione (ormai chiusa) e tutti si accorsero con uno sguardo che non si trattava di un missionario. Pochi passi, lasci il piazzale della chiesa, imbocchi la scalinata affacciata sul mare e ti ritrovi di fronte rovine. Un muro crollato – abbattuto dalla pioggia che ha fatto ammalare la terra, l’ha ridotta in fango – copre gli antichi mattoni rossi. È così da anni. All’inizio forse qualcuno sperava ancora di ripararlo, poi si sono arresi tutti. Hanno messo un cavalletto, giusto per evitare rogne se la gente cade nella voragine che si è aperta.
Fine. La crêuza è morta. Non ci sono i soldi e la voglia per ripararla. E la vita lentamente l’ha abbandonata: nessuno ci passa più, la vegetazione la sta invadendo. No, non è un caso isolato. A poche centinaia di metri c’è la scuola d’Agricoltura dove studiò Rodolfo Valentino, prima di abbandonare il mestiere di giardiniere e imbarcarsi per l’America e Hollywood. Ecco altri cavalletti. Altri scalini che si disfano sotto i tuoi piedi. Oppure sulle alture vicine, a San Bernardo, Sessarego, Pieve. Ovunque. Nei pochi percorsi recuperati al posto dei mattoni arrivano il cemento e l’asfalto. Costano meno, non ci vuole nessuna perizia. Accade nel silenzio, si scansa il passo, si cambia il percorso. E nessuno sembra farci caso. Addio crêuze, quella parola intraducibile, che non è vicolo, non è sentiero. Sono crêuze e basta: una lingua di mattoni rossi, di pietre grigie prese dalla collina. E di ulivi, di mare, perché sono fatte anche di questo, del paesaggio che hai intorno.
“Un monumento a suo modo, così ligure, perché minimo, scarno, senza nemmeno un autore da ringraziare”, racconta Giovanni Meriana, autore di tanti libri sulla Liguria e la cultura contadina, “Chissà chi ha piegato la schiena per portare fin quassù quei mattoni, per prendere i sassi dalla montagna. E poi per incastrarli tutti in un modo così perfetto da resistere per secoli. Fino a oggi”. Spariscono le crêuze e insieme il mestiere di costruirle. Si contano sulle dita della mano gli artigiani – alcuni, strano a dirsi, sono albanesi – capaci di realizzare il “risseu”, quel mosaico contadino che abbelliva le piazze, le stradine dei paesi della Liguria.
Crollano le “fasce”, la “muraglia cinese” dei liguri, migliaia di chilometri senza una goccia di cemento, ma capaci di tenere in piedi le colline. “Sono troppo costose, la gente crede che siano inutili. Meglio fare un box per l’auto”, sorride amaro Ilario Marsano che a ottant’anni si ostina a passare le sue giornate a rimettere a posto ogni sasso portato via dall’acqua. A togliere l’erba che ci cresce in mezzo, tenace come lui. “Io resisto, ma so bene che appena me ne sarò andato tutto finirà”. La natura vince, viene da dire. “Ma non diamo la colpa a chi non ce l’ha. È cominciato qualche anno fa”, racconta Teresa Penco, vive in una casa sulle alture, che si raggiunge solo con le crêuze, “l’Amiu, la municipalizzata della nettezza urbana genovese, aveva avviato la spazzatura meccanizzata. E in un attimo si è estinto lo spazzino, quello con la scopa di saggina che magari non faceva quadrare i bilanci, ma arrivava dappertutto. Anche nelle crêuze”. Così hanno cominciato a vincere le erbe, i rifiuti. Poi l’azienda che si occupa dell’illuminazione pubblica ha lasciato che si spegnessero i lampioni. Uno dopo l’altro. E dove non c’è la luce, se ne va anche l’uomo. Alla fine sono arrivati i crolli. I cavalletti, le transenne, e con loro la rassegnazione.
“Non ci vado più a camminare lassù. L’altra sera sono caduta, mi sono storta un braccio. Volevo fare causa, ma poi… non ha senso. Hanno le pezze sul sedere peggio di me… e poi ci perdi solo i soldi degli avvocati”. Così Lisa Perrone, 75 anni, ha rinunciato alla sua passeggiata serale, alla visita all’amica dei tempi della scuola, a quello sguardo sul mare che magari ti fa anche malinconia, ma ti fa sentire vivo. “Me ne sto in casa da sola a guardare la televisione”. Addio crêuze. Quando viene notte se dal mare guardi le alture le vedi più buie di una volta. Quello scheletro di luci che sembrava tenerle su, sta sparendo. E sulle lastre di marmo appese ai muri si scoloriscono i nomi delle vie con le storie che raccontavano: via Cianà, salita Pendicollo, salita del Crocifisso.
Finirà come scriveva il poeta Giorgio Caproni, genovese d’adozione, raccontando la vita dell’ultimo abitante di un paese della Liguria: “Non c’è più nessuno/meglio – lo so – che io me ne vada/ prima che me ne vada anch’io”. Delle crêuze rischiano di restare soltanto le parole di De André. Nessuno passa più dove la luna si mostra nuda e incontri le facce dei marinai.