MilanoFinanza, 29 dicembre 2015
Svalutare non sempre funziona
Il fatto che diverse banche centrali adottino politiche monetarie ancora più aggressive ha indotto alcuni economisti a predire una nuova stagione di guerre valutarie del tipo beggar-thy-neighbor (letteralmente, ruba al tuo vicino), in cui i Paesi si sfidano per rendere le rispettive esportazioni più convenienti.
Ma le cose non sembrano essere così semplici, e una crescente quantità di dati empirici suggerisce perché: il cambiamento in atto nel commercio internazionale sta rendendo meno efficace l’indebolimento delle valute nazionali. Ciò potrebbe essere tanto più vero oggi che le politiche delle due principali banche centrali, la Fed e la Bce, vanno in direzioni molto diverse.
Quando un Paese allenta la politica monetaria, i tassi calano, e gli investitori locali cercano rendimenti più alti altrove, il che spinge in basso il valore della divisa. Tutto questo è ancora valido. Ma questa dinamica non influisce come previsto sui flussi commerciali. A essere cambiate sono le fonti di approvvigionamento degli input di cui hanno bisogno le imprese per produrre i manufatti che esportano. Le aziende comprano sempre più all’estero i componenti. Quindi, oggi sul prezzo dei prodotti esportati è sempre più alta l’incidenza dei componenti importati. Così, quando una valuta come l’euro si indebolisce, si riducono i prezzi delle merci tedesche vendute negli Stati Uniti, ma aumenta anche il prezzo dei componenti che i produttori tedeschi devono importare per mettere sul mercato i loro prodotti.
Misurare l’impatto delle catene di approvvigionamento globali sui flussi commerciali è l’obiettivo di un progetto intrapreso dall’Ocse e dalla Wto.
Utilizzando i dati provenienti dalle economie di tutto il mondo, gli economisti delle due organizzazioni internazionali hanno misurato quanto delle esportazioni di un Paese è prodotto all’estero, confermando un aumento significativo rispetto a metà anni 90. Il contenuto estero dell’export svizzero, per esempio, è aumentato al 21,7% nel 2011 dal 17,5% nel 1995, mentre la Corea del Sud è passata al 41,6% nel 2011 dal 22,3% del 1995.
Gli economisti di Fmi e Banca Mondiale hanno usato queste misure per valutare se i movimenti in divisa hanno lo stesso impatto su esportazioni e importazioni, e hanno scoperto che l’effetto per alcuni Paesi si è ridotto nel tempo di non meno del 30%.
La politica sta cominciando a prendere atto di questa evoluzione. «Dato che i Paesi diventano più integrati tramite catene di valore globali, le variazioni dei tassi di cambio avranno impatto inferiore sulle ragioni di scambio», ha detto in California il mese scorso Benoît Coeuré, membro del comitato esecutivo della Bce, secondo il quale si ridurrà il ruolo di ammortizzatori dei movimenti dei cambi che reindirizzano la domanda globale ai Paesi più deboli da quelli più forti.
Il Giappone offre l’indicazione più chiara che le forti svalutazioni non spingono più l’export come una volta. Nei primi mesi del 2013 la Banca del Giappone lanciò un piano di stimoli monetari che ha portato a una forte svalutazione dello yen nei confronti di dollaro ed euro.
Tale strategia è stata un elemento chiave della strategia adottata da Tokyo per tirar fuori l’economia da una lunga stagnazione. Ma l’indebolimento dello yen ha avuto scarso impatto sulle vendite all’estero di made in Japan, e non ha rilanciato la crescita. I responsabili politici sottolineano la debole domanda globale, ma anche se così fosse, gli esportatori giapponesi avrebbero comunque guadagnato quote di mercato.
Un modello simile è emerso sulla scia della decisione della Bce di gennaio di varare un Qe. Come lo yen, l’euro si è indebolito, proseguendo un calo nei confronti del dollaro iniziato nei primi mesi del 2014 e che ora è circa del 20%. A inizio 2015, si prevedeva che il Qe europeo avrebbe stimolato la crescita dell’Eurozona spingendo le esportazioni. Ma ancora una volta, l’impatto della valuta più debole è stato modesto. Nel terzo trimestre dell’anno la crescita dell’Eurozona è stata frenata da una più rapida crescita delle importazioni rispetto all’export, mentre la produzione industriale è rimasta stabile.
Per gli esperti occorrono da 12 a 18 mesi perché il movimento dei cambi sia pienamente riflesso nei flussi commerciali, quindi l’effetto si dovrebbe sentire ora sia nell’Eurozona sia in Giappone. L’euro ha cominciato a indebolirsi verso il dollaro nei primi mesi del 2014, mentre lo yen giapponese è tre anni che si deprezza contro il biglietto verde.
Risultati deludenti che tuttavia non indicano che la divergenza tra le politiche di Fed e Bce sarà priva di effetti. È una delle principali preoccupazioni delle aziende Usa dopo la recente decisione della Fed di alzare i tassi per la prima volta in quasi un decennio, poche settimane dopo che la Bce ha fatto il contrario. Molti economisti prevedono che le esportazioni Usa soffriranno. Già nei dieci mesi del 2015, il deficit commerciale Usa è salito del 5,3% rispetto al 2014, causa il calo delle esportazioni. Come gli economisti di Fmi e Banca Mondiale hanno notato, la misura in cui un movimento di valuta aumenta o riduce le esportazioni dipende dal contenuto di prodotti importati dall’estero. Per l’economia nel complesso, la quota estera nelle esportazioni americane è all’estremità inferiore del range globale, intorno al 15%, rispetto a più del 25% in Germania. Per la quale le cose «sono più complicate rispetto agli Stati Uniti, il cui export presenta un basso contenuto di componenti importati», afferma Sebastian Miroudot, economista dell’Ocse.
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