La Stampa, 29 dicembre 2015
La scienza studia la voce di Adele per scoprire perché fa piangere così tanta gente
Càpita che gli stereotipi possano cedere il passo a un segmento di verità non condivisa, anzi quasi derisa come passatista e immotivata. Càpita che il mondo sia obbligato ad accorgersi che non tutti sono perennemente connessi, e che c’è un vasto segmento (milioni di persone, dovunque) pronto a comprarsi un cd, per giunta di una femmina, per giunta non con le tette perennemente di fuori come Miley Cyrus.
Un segmento che non si scandalizza se Adele (una versione presentabile di Susan Boyle, in fondo) decide di non mettere in streaming 25, il suo album plurimilionario in un pugno di settimane, non solo perché non le danno abbastanza soldi come Taylor Swift, ma perché non ne sente il bisogno: «So che lo streaming è il futuro, ma non è l’unico modo di consumare musica. Io non lo uso – ha detto a Time che le ha dedicato l’ultima copertina -. E penso che noi possiamo dire un sì o un no alle cose, indipendentemente dal successo».
Ragazza all’antica, apparentemente. Che nella furbissima telefonata del singoloHello piange nell’antico apparecchio a fili (così come giura di fare nella vita di tutti i giorni). Che non usa i social network: «Danno un senso di saturazione, distraggono artisticamente», dice. Adele, 27 anni e un successo da stramazzare, è la regina delle controtendenze della musica popolare internazionale, nel 2015: prima di diventarlo, molto probabilmente, anche nel 2016, quando il suo tour prenderà il via il 29 febbraio dell’anno bisesto a Belfast (Italia, all’Arena, il 28/29 maggio). I record sono tanti: 3,8 milioni di copie di 25vendute la prima settimana dell’uscita, mai successo; poi un milione secco, settimana dopo settimana, fino ai 5,19 delle prime 3; 1,15 nella settimana di Natale. Hello, il singolo telefonico, visto a un ritmo di 1,6 milioni di volte all’ora su YouTube: ieri, era a quasi 36 milioni.
Ma poi c’è soprattutto la voce. Una grana di voce sicura, lievemente rauca, timbrica potente senza rompere le orecchie. La definizione che corre è «autentica». Sta dando lavoro alle neuroscienze, questa voce: stanno cercando di spiegare perché fa piangere molta gente. Tutt’altro che ultime, le canzoni: a sorpresa ancora perse dietro la vulnerabilità dolorosa che ha reso un traguardo 21, un disco migliore di 25. Canzoni che provengono come senso e struttura da un passato serio, come quelle di Amy Winehouse. È ancora Time a ricordarci che quelle di 25 sono nate come si è sempre fatto, in un processo fluido: «Scrivo un pezzo dall’inizio alla fine, sono storie».
I fichetti di questi giorni invece assumono autori che assemblano le frasi musicali più furbe per attirare l’attenzione, in un processo matematico. Time chiama questi successi «un Frankenstein delle idee». Così si fa ora: lei, no. Basterà tutto questo a cambiare strada al pop? Certo che no, però... Intanto, è appena il caso di notare che Adele è sempre fotografata da sola, e trovarla in Rete con il suo bimbo Angelo e il compagno Simon Konecki, Ceo di una charity, è una rarità.