La Stampa, 29 dicembre 2015
La villa di Tomasi di Lampedusa è stata ricostruita così com’era
Chissà cosa direbbe il principe vedendo quel fantasma amatissimo della sua infanzia rinascere dalle sue rovine, chissà cosa proverebbe a vedere resuscitare identica, come con un tocco di bacchetta magica, la dimora di famiglia «con i suoi tre cortili, le sue quattro terrazze, il suo giardino, le sue scale immense, i suoi anditi, i suoi corridoi, le sue scuderie, i piccoli ammezzati per le persone di servizio e per l’amministrazione, un vero regno per un ragazzo solo».
Batte il cuore, a varcare la soglia di Palazzo Lampedusa, la dimora dove Giuseppe Tomasi di Lampedusa – l’autore de Il Gattopardo – visse per i primi 47 anni di vita, fino a quando il 5 aprile 1943 una bomba alleata non la trasformò in un rudere sventrato e fumante. Un ordigno piovuto dal cielo che devastò il cuore dello scrittore, un dolore senza il quale non sarebbe nato il capolavoro letterario con le sue nostalgie, i suoi rimpianti, i suoi ritratti impietosi di un’aristocrazia che aveva perduto la bussola della storia.
«Un trauma che lo avrebbe segnato per tutta la vita – racconta Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo dello scrittore – e che avrebbe segnato tutta la nobiltà siciliana del tempo».
Adesso il Palazzo è rinato dalle sue ceneri, con un intervento filologico senza precedenti che si è basato sull’analisi del rudere, sul recupero del progetto di ricostruzione, sulle testimonianze letterarie. E in quel regno di un bambino solo – oltre 3 mila metri quadrati nel cuore di Palermo – sono nati quaranta appartamenti grazie a un gruppo di trentacinque architetti e di professionisti che hanno portato avanti il progetto senza alcun contributo pubblico. La dimora è identica all’esterno e frazionata negli interni, pur nel rispetto di quel che era rimasto. E quasi tutti gli appartamenti sono stati già venduti. «Siamo partiti dai resti della casa consapevoli che quei resti rappresentassero la presa di coscienza dello scrittore della fine della sua epoca – dice l’architetto Alice Franzitta, alla guida della cordata che ha acquistato l’area e recuperato la dimora. La famiglia Tomasi già all’inizio del ‘900 aveva perso feudi e ricchezze, ma finché esisteva la casa amata esisteva ancora il suo mondo. La perdita dell’ultimo baluardo lo mise davanti alla cruda realtà della fine del mondo aristocratico e lo portò a raccontare del declino e del trapasso epocale».
Così è rinato il prospetto di pietra candida lungo 46 metri, sono rinati il grande portone e le nove finestre, sono rinati i cortili in cui il piccolo Giuseppe giocava, figlio unico innamorato della bellissima madre, in un mondo intatto e apparentemente inscalfibile. Sembra di vederlo osservare estasiato «l’asimmetria dei muri, la quantità dei saloni, gli stucchi dei soffitti», sembra di vederlo rincorrere il sole. «Mai macchie di umidità sui muri esterni di cortile hanno presentato forme più eccitatrici di fantasia di quelle di casa mia. In nessun punto della terra, ne sono sicuro, il cielo si è mai steso più prepotentemente azzurro di come facesse al di sopra della nostra terrazza rinchiusa».
Quando piombò la bomba dal cielo, Tomasi aveva 47 anni. Riuscì a riempire una borsa con pochi effetti personali della moglie – la principessa lettone Alexandra Wolff Stomersee, pioniera della psicanalisi in Italia – e si incamminò a piedi verso Bagheria, fino alla casa del principe di Mirto a Santa Flavia. Per tre giorni si rinchiuse in una stanza, rifiutandosi di parlare. Poi andò ad abitare in un appartamento in affitto, infine trascorse gli ultimi anni della sua vita quasi in miseria a Palazzo Butera, oggi dimora splendida dopo il restauro condotto dal figlio adottivo, ma allora in rovina. Ma fino alla morte pensò alla sua casa perduta con voluttà quasi sensuale. «La amavo con abbandono assoluto e la amo ancora adesso, quando essa da dodici anni non è più che un ricordo», scrisse nei suoi «Ricordi d’infanzia». Adesso quella parole sono riprodotte sul muro del cortile principale dove passano altre famiglie, altri bambini, altre risate e altri pianti.