la Repubblica, 29 dicembre 2015
Parla la giornalista francese cacciata dalla Cina
La “nemica della Cina” è una professionista esperta. L’hanno messa alla gogna, hanno sfruttato il suo lavoro di giornalista per farla diventare niente meno che una “amica dei terroristi”. E lei non ci sta. Non si nasconde Ursula Gauthier, corrispondente del Nouvel Observateur da Pechino. O forse bisognerebbe scrivere ex corrispondente, perché a fine anno scade il suo visto giornalistico e le autorità cinesi sono decise a non rinnovarglielo. La Gauthier è finita in mezzo a un braccio di ferro fra “falchi nazionalisti” e governo, il giornale Global Times ha lanciato una campagna d’odio contro di lei per un articolo in cui esprimeva dubbi sulla solidarietà cinese verso la Francia dopo gli attentati. Se la Cina si schiera, argomentava la giornalista, non è in nome di Charlie Hebdo, per la libertà di espressione. La mobilitazione deve valere come credito quando Pechino esigerà altrettanta simpatia verso la repressione del “terrorismo” nel Xinjiang, come le autorità etichettano ogni protesta della minoranza musulmana degli uighuri. E l’Occidente seguirà questa strada, perché la Cina è un mercato troppo prezioso.
Signora Gauthier, lei è una corrispondente esperta, conosce le reazioni cinesi e i meccanismi di censura. Come mai ha deciso di scrivere su un tema come quello?
«Io non mi censuro mai. Sono qui da sei anni, e ho sempre scritto degli argomenti e che volevo, senza pensare alle conseguenze. Sono andata spesso in zone difficili, come il Tibet. E il pezzo del 18 novembre è ben lungi da essere il mio articolo più delicato».
Che cosa in particolare ha fatto arrabbiare le autorità?
«Voglio essere sincera: non sono in grado di capirlo fino in fondo. Un anno e mezzo fa sono andata nel Xinjiang, clandestinamente, ho fatto un’inchiesta sugli incidenti nei pressi della città di Turpan: rabbia, repressione, moltissime vittime. Il pezzo è stato pubblicato e nessuno ha detto niente. Stavolta ho scritto un pezzo breve, di analisi. E all’improvviso è partito questo tsunami».
Forse si sono offesi perché nel pezzo lei sottolineava come la solidarietà cinese dopo gli attacchi terroristici di Parigi fosse sostanzialmente falsa.
«Sì, era una solidarietà ipocrita. E forse si sono offesi per l’idea».
Si troverà una soluzione?
«No, non ho speranza. Già un mese fa Hua Chunying, portavoce del ministero dell’Informazione, mi ha definito un’amica dei terroristi. E così il portavoce degli Esteri, Lukang. Mi stanno presentando ovunque, persino in tv, come un’amica dei terroristi e una nemica della Cina. Non possono tornare indietro: perderebbero la faccia, e questo in Cina significa perdere tutto».
Il governo francese avrebbe potuto difenderla in modo più deciso?
«Credo che non siano stati all’altezza del compito. È un tema molto serio. Non il mio proble- ma, perché quello è già risolto: devo andar via. Ma è la questione delle regole che il governo cinese, seconda potenza del mondo, cerca di imporre a noi giornalisti stranieri. Gli dobbiamo lasciare il controllo di tutto ciò che viene scritto sulla Cina?».
Come spiega l’atteggiamento occidentale verso la Cina? È solo legato alle possibilità dell’immenso mercato?
«È chiaro che Fabius, da ministro degli Esteri, si sta concentrando sugli affari con la Cina, il che a me va bene. Ma questo non vuol dire che deve stare zitto quando ci sono abusi. I governi occidentali non capiscono che si può essere amici della Cina, avere importanti rapporti economici, ma questo non vuol dire accettare qualsiasi cosa la Cina imponga».
Solo nel gennaio scorso, la solidarietà contro il terrorismo sembrava essere legata strettamente alla libertà di espressione, in nome di Charlie Hebdo.
«Nel mio caso la denuncia è arrivata dal giornale Global Times. Sono nazionalisti estremi, ma rappresentano solo una tendenza all’interno del potere cinese. Sull’assalto contro Charlie Hebdo, hanno detto che la Francia ha la sua parte di responsabilità, perché Charlie non è stato rispettoso dei sentimenti dei musulmani. La stampa dovrebbe avere limitazioni. Non dovrebbe avere diritto di criticare e scherzare su qualsiasi cosa. Questa è la posizione ufficiale della Cina. In un certo senso, è coerente».
Come può un giornale dettare la linea al governo?
«Sapevano quello che facevano, quando hanno deciso che il mio articolo doveva essere denunciato e il mio nome esposto ai lettori come un esempio. Lo hanno scritto in caratteri latini, cosa che non fanno mai. E mi hanno messo alla gogna. Sapevano che dopo l’ondata di decine di migliaia di insulti e contestazioni il governo non avrebbe potuto cambiare rotta. Hanno imposto la linea persino a Xi Jinping, credo».
C’è una lotta interna al regime?
«Lo dicono tutti, ma la verità è che non sappiamo quello che succede all’interno. So solo che il potere cinese non è questo, non è cieco nazionalismo».
Nessuno da parte cinese ha tentato di difenderla?
«C’è stata qualche voce, ma così poche… Negli ultimi 2-3 anni blogger, analisti indipendenti, tutti sono stati ridotti al silenzio. Molti sono in prigione. Lo spazio libero che esisteva su Internet non c’è più. Persino un docente dell’università di Pechino per le minoranze, Ilham Tohti, è stato condannato all’ergastolo per aver parlato di discriminazione nello Xinjiang, senza accennare alla politica o al terrorismo o all’indipendenza. L’ergastolo!
Ci sono stati precedenti di censura simile negli ultimi tempi?
«No, quest’anno tutto andava bene, gli ultimi problemi sono stati per i giornalisti del New York Times e di Bloomberg, che avevano scritto sulla famiglia di Wen Jiabao. Hanno avuto problemi con il visto, gli presentavano problemi burocratici. Insomma, il messaggio arrivava, ma in modo più dolce. Ora è molto diverso, questa è vera e propria intimidazione».