La Stampa, 29 dicembre 2015
Morire di parto ancora si può. Ma l’Italia sta cercando di fare meglio
Morire di parto. Alle soglie del 2016 ancora si può. E almeno la metà di quelle 39 vite di mamme, stroncate in due anni nel momento più bello, poteva essere salvata. Magari sapendo che cosa fare nella situazione più frequente, emorragia (8 casi su 39). O evitando di sottoporre quelle cinque donne obese e con più di 42 anni a tecniche di procreazione assistita. Che in quelle condizioni diventano pericolose. Tant’è che nel Regno Unito con gli stessi parametri scatta l’alt. Ma a volte si muore in sala parto per pura disinformazione. Perché si ignora che in stato di gravidanza bisogna vaccinarsi contro l’influenza per evitare pericolose complicazioni. Che sono costate la vita ad altre 4 donne che quella semplice puntura non l’avevano fatta.
La situazione
La fotografia l’ha scattata il Centro di sorveglianza e promozione delle salute dell’Iss, l’Istituto superiore di sanità. Su 100mila bambini messi al mondo in Italia ci sono 10 donne che perdono la vita. In tutto 39 dal 2013 al 2014; nel 2015 il trend sembra confermato. Numeri lontani comunque mille miglia dagli oltre 500 decessi ogni 100mila nati del Sud del mondo. «Purtroppo questi grandi progressi spesso passano in secondo piano quando la morte colpisce in un momento che dovrebbe essere di grande felicità», commenta la presidente dell’Ordine nazionale dei medici, Roberta Chersevani. «Chi nasce oggi forse vivrà fino a 120 anni e questo - aggiunge - fa nascere l’idea di una medicina della perfezione e dell’immortalità che non può esistere e che finisce per generare tanti contenziosi tra medici e pazienti».
I progressi dell’Italia si riferiscono per ora solo alle otto regioni (Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania, Puglia e Sicilia) monitorate dall’Iss e sono in linea con quelli di Francia, Gran Bretagna e Olanda. Paesi che, come il nostro, hanno messo in piedi una rete capace di monitorare gli eventi, senza basarsi sui soli certificati di morte, «che sottostimano il fenomeno del 60%», sottolinea Serena Donati, responsabile del reparto Salute della donna e dell’età evolutiva dello stesso Iss. E poi se non si muore troppo speso ci si va vicino. «Oltre 400 casi in due anni di quelli che chiamiamo “near miss”, donne che sono andate vicino morire di parto» rivela Donati.
Per questo all’Istituto stanno correndo ai ripari facendo tesoro dei dati. Ad esempio formando il personale e dotandolo di linee guida per prevenire la piaga delle emorragie. Ma anche suggerendo le modifiche organizzative necessarie. Come quelle per garantire un tempestivo elitrasporto quando la sala parto è troppo lontana e il tempo stringe.
«L’obiettivo - annuncia l’esperta dell’Iss - è arrivare a zero morti evitabili per parto». Per farlo però occorre cambiare marcia. Innanzitutto ponendo fine allo scandalo dei punti nascita dove si fanno meno di 500 parti l’anno. Un numero troppo esiguo per fare esperienza. Tant’è che sotto quella soglia, dicono i dati dell’Agenas, l’agenzia per i servizi sanitari regionali, il numero degli incidenti si impenna. Per questo nel 2010 la conferenza Stato-Regioni decise la chiusura. Oggi ne funzionano 123, sparsi in Italia, con centri che fanno solo 12 o 13 parti l’anno.
L’anomalia italiana
E poi c’è da combattere l’anomalia tutta italiana del ricorso al bisturi per mettere al mondo un bimbo. «Come qualsiasi intervento chirurgico aumenta i rischi per la donna, tanto più se non ci sono valide ragioni per evitare di partorire per via naturale», spiega Donati. Eppure ancora lo scorso anno un parto su quattro è avvenuto con taglio cesareo, quando i dati internazionali dicono che in un Paese con adeguata assistenza sanitaria il loro numero non dovrebbe superare il 10-15% del totale. Medie che non danno il quadro della realtà, visto che in alcuni ospedali si sceglie il cesareo in ben oltre il 60% dei casi, percentuale sfiorata dalla Campania nel suo complesso. E guarda caso al bisturi si ricorre di più quando ci si rivolge al privato. Dove a volte il parto diventa un business. Anche a discapito della donna.