la Repubblica, 29 dicembre 2015
Montepaschi dà il via al valzer delle sofferenze
La prima cessione di crediti in sofferenza dopo i salvataggi del 22 novembre è andata in scena ieri, a Siena. E il prezzo sembra “giusto” rispetto a quello – selvaggiamente decurtato – imposto dalla Commissione europea per gli 8,5 miliardi di sofferenze targate Banca delle Marche, Etruria, Cariferrara, Carichieti. Il 22 novembre quel fardello di prestiti deteriorati da un decennio di crisi economica (ma in più casi già concessi sgraziatamente dagli ex banchieri del Centro Italia) furono svalutati in media al 17,6% del nominale, per apportarli alla bad bank “Rev” che è nata giorni fa con lo scopo di venderli all’asta entro pochi mesi. Ma non tutte le sofferenze sono uguali: anzi. Di quelle tosate da Bruxelles per dare il nulla osta all’operazione salvabanche, le sofferenze con garanzie reali sono state valutate in media il 25%, mentre tutto il resto è stato passato al 10%. Come ha deciso le percentuali la Commissione? Con un diktat ispirato a criteri conservativi: anche perchè le quattro banche erano da tempo commissariate e non certo ripulite a specchio nel libro creditizio. «Quella dei 17,6% ci sembra una valutazione molto prudente, che non tiene conto delle modifiche normative», ha scritto l’ufficio studi del Cerved.
Ieri il Monte dei Paschi, zavorrato da 25 miliardi di euro di prestiti decotti, ne ha venduto un miliardo a un veicolo di cartolarizzazione finanziato da Deutsche Bank. «Il portafoglio è composto da circa 18mila posizioni per un valore contabile lordo di circa un miliardo (1,7 miliardi includendo gli interessi di mora e/o altri addebiti)», riporta una nota della banca senese, che specifica come quei crediti siano «prevalentemente unsecured, relativi a controparti imprese e per grande maggioranza entrati in sofferenza prima del 2009». Il prezzo di vendita, come sempre in questi casi, non è stato reso noto. Ma è bastato seguire l’identikit di quei portafogli e fare un paio di telefonate per avere l’informazione che quel miliardo è stato valutato qualche decimale in meno del 10%. E il 10% è proprio il livello cui sono stati svalutati i crediti “unsecured” (senza garanzie) delle quattro banche. Ma quei crediti senesi, ripetiamo, erano un fondo di barile: vecchi, già molto svalutati, piccoli e non garantiti. Mps ha aggiunto che l’operazione «ha evidenziato un forte interesse da parte degli investitori», e si inscrive nella strategia di vendita di almeno 5,5 miliardi di sofferenze nel triennio 2015-2018.
Il caso Mps è il più utile per passare dal particolare al generale. Le banche italiane, con la crisi di questi anni, hanno quadruplicato i crediti non onorati, che ammontano a 197 miliardi. Una foto di gruppo dice che circa 80 miliardi sono prestiti alle pmi (e sono quelli che valgono meno, per la frequente assenza di garanzie reali), un centinaio di miliardi sono crediti immobiliari, il resto finanza al consumo. Un fiume rosso che ha ingessato l’operatività bancaria, e frena il nuovo credito per i costi espliciti e i rischi impliciti di questo zoccolo duro. Si dovrebbero ripulire i libri ma il mercato che tanti invocano ha fallito nell’impresa, perché il prezzo a cui i fondi opportunisti si dicono pronti a comprare è più vicino a quelli “suggeriti” dai funzionari brussellesi che a quelli contabilizzati nei bilanci bancari. Se per ipotesi tutte le sofferenze italiane fossero cedute al 17,6% del nominale, il sistema bancario nazionale – che ha un tasso medio di copertura del 43% – perderebbe di botto 50 miliardi tondi tondi. Per questo nel 2014 il «forte interesse degli investitori» (che è effettivo) fu soddisfatto per soli 5 miliardi, e nel 2015 che pure chiude come il migliore da un decennio la nicchia ha superato di poco i 10 miliardi lordi, con protagoniste Mps, Unicredit, le popolari venete, Carige.
Il governo di Matteo Renzi, dopo che i suoi due predecessori erano stati parecchio cauti sul tema, sta provando da un anno a congegnare uno schema di bad bank compatibile con le nuove e più severe regole sugli aiuti di Stato; ma non c’è riuscito finora, e i chiari di luna tra Roma e Bruxelles fanno dubitare a molti che ci riuscirà nei prossimi mesi (salvo un intervento a gamba tesa della Bce, che invece sulla bad bank, specie in Italia, ci punta ancora). Intanto il tempo passa, e le banche devono fare da sole, pena l’immobilismo.
Più indicatori – tassi a zero, liquidità miliardaria da far fruttare in mano ai fondi, la riforma giudiziaria del governo che accorcia i tempi di escussione dei crediti – segnalano che il 2016 sarà ancora più vivace. Intanto sono in rampa di lancio gli 8,5 miliardi della bad bank nata dalle quattro banche salvate, per cui un banchiere d’affari segnala che «dai primi segnali sembra ci sia più interesse che non per le quattro nuove banche risanate». E si capisce: quelle banche non fecero a fine 2014 i test di vigilanza Bce, e sono state a lungo commissariate, per cui i loro crediti potrebbero subire contraccolpi dalle prossime perizie che gli advisor Oliver Wyman e Soc-Gen devono redigere per la vendita. La bad bank unica, invece, è già piallata a dovere da Bruxelles e potrebbe garantire rendimenti più alti e sicuri a chi la comprerà ai nuovi prezzi. Un boccone ghiotto insomma, che proprio per questo potrebbe venire associato ad altri attivi in vendita delle quattro banche salvate. La decisione è nelle mani dell’unità nata in seno a Bankitalia, regista delle operazioni di risoluzione ai sensi della nuova direttiva Brrd.