Corriere della Sera, 29 dicembre 2015
Il Giappone si scusa per le schiave del sesso coreane. Ci sono voluti 70 anni
Ci sono voluti 70 anni. Ma alla fine Giappone e Corea del Sud sono pronti a chiudere – una volta per tutte – l’ultimo, doloroso capitolo che si trascinava dal 1945, impedendo una vera normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi asiatici. Finita la Seconda guerra mondiale, e con essa la sanguinosa dominazione coloniale della Penisola coreana da parte dell’esercito del Tenno, restava, per Seul, da superare – con scuse ufficiali e risarcimenti – la questione delle «donne di conforto», vere e proprie schiave del sesso rastrellate dai giapponesi nei territori da loro occupati a beneficio dei soldati. Una prima intesa sui danni di guerra, siglata nel 1965 con il governo del dittatore Park Chung-hee, uomo forte di Seul dal 1963 al 1979 (e padre dell’attuale presidente, la signora Park Geun-hye), non è mai stata considerata conclusiva dai coreani.
Ieri, in una conferenza stampa congiunta tra i ministri degli Esteri dei due Paesi a Seul, l’annuncio tanto atteso. Il giapponese Fumio Kishida ha espresso all’omologo sudcoreano Yun Byung-se le «profonde scuse» del governo del Giappone per il danno causato alle donne reclutate forzatamente dall’esercito nipponico: «Abe, come primo ministro del Giappone, offre nuovamente le scuse dal suo cuore e una riflessione per tutte coloro che hanno sofferto molto dolore e hanno cicatrici che sono difficili da rimarginare sia fisicamente, sia mentalmente», ha detto. Kishida ha anche promesso un miliardo di yen (7,6 milioni di euro) in risarcimenti che andranno in un fondo gestito dall’esecutivo sudcoreano (e non alle dirette interessate). Dal canto suo, Yun Byung-se ha garantito che Seul considererà la questione chiusa «in modo definitivo e irreversibile» se Tokyo manterrà i suoi impegni.
Immediata la soddisfazione della Casa Bianca, sollevata dalla conclusione di una vicenda che ha guastato per decenni i rapporti tra i due più «importanti alleati» degli Usa in Asia. «Sosteniamo questo accordo – ha detto il segretario di Stato John Kerry —. Riteniamo che rappresenti un importante gesto di riconciliazione tra due dei nostri amici più stretti». Ancor più alla luce delle crescenti tensioni (strategiche) tra Washington e Pechino nel Pacifico.
D’altro canto, le «donne di conforto» (che i giapponesi reclutarono a forza anche in altri Paesi, dalle Filippine alla Cina) pesavano come un macigno sulla diplomazia di Tokyo, restia a gesti di contrizione «ufficiali». Le circa duecentomila giovani strappate alle loro famiglie, furono costrette, a partire dagli anni Trenta fino alla conclusione della Seconda guerra mondiale, a diventare vere e proprie schiave sessuali dei soldati giapponesi, subendo stupri e sevizie per anni. Gran parte di queste disperate, una volta tornate a casa, dovettero anche affrontare l’onta e l’umiliazione di una società conservatrice. Più di un premier giapponese, negli anni, provò a esprimere «rimorso» per quanto accaduto. Ma mai con parole chiare e con l’impegno economico del governo, ragion per cui la controparte aveva sempre respinto i messaggi al mittente.
Oggi in Corea del Sud sopravvivono soltanto 46 di queste sfortunate donne, tutte ultraottantenni. Era importante, ha fatto notare Park Geun-hye, arrivare a un’intesa prima che l’ultima testimone «lasciasse questo mondo: soltanto nel 2015 abbiamo dato l’addio a nove di loro». Il primo ministro giapponese Shinzo Abe si è premurato di telefonare direttamente alla signora Park, per reiterare le scuse formali consegnate in forma di lettera dal suo ministro degli Esteri. La presidente sudcoreana ha risposto esprimendo la speranza che le due nazioni saranno «finalmente capaci di costruire un clima di fiducia e aprire una nuova era nei rapporti reciproci».
E loro, le protagoniste (involontarie) di questa triste vicenda? Alcune ex donne di conforto hanno criticato un’intesa sulla quale «non abbiamo avuto voce». Altre l’hanno accolta con favore. «È una cosa giusta, normale accordare una compensazione quando si commette un crimine», ha dichiarato all’agenzia Yonhap Lee Yong-su, 88 anni e nessun sorriso.