Focus, 27 dicembre 2015
Dire “nero” invece di “negro”, “gay” invece di “frocio”, “diversamente abile” invece di “handicappato”: riflessione sui nostri pregiudizi e sul politicamente corretto
“Hai presente Carlo? Quello verticalmente svantaggiato e cronologicamente dotato? Da quando è in esubero, è finanziariamente non privilegiato”.
Diciamo la verità: essere “politicamente corretti” è una gran fatica (e a volte ridicolo). Ma, soprattutto, è poco realistico: se parliamo di Carlo, diremo che è un anziano basso di statura, che è stato licenziato ed è diventato povero.
Il “politicamente corretto”, però, non è soltanto una moda linguistica tutto sommato innocua: di fatto ispira azioni tangibili. A ottobre, per esempio, il presidente degli Usa Barack Obama ha inaugurato alla Casa Bianca una gender-neutral toilet,un gabinetto di genere neutrale. Aiuterà davvero a sconfiggere la discriminazione verso gay e transgender (altri termini politicamente corretti)? La questione sulla correttezza politica (CP) è tutta qui: l’igiene verbale rende il mondo migliore oppure è soltanto una cosmesi di facciata? La premio Nobel Doris Lessing l’ha definita “la più potente tirannia mentale”: una dittatura ideologica, una forma di mistificazione o di censura. È vero che oggi questa espressione è diventata una parola d’ordine con un significato incerto, come sfumati sono i suoi alfieri. Chi decide come dobbiamo esprimerci? E in che modo?
MIGLIOR VITA. Per rispondere, bisogna capire che cos’è la CP e che cosa si propone. È un movimento culturale basato sull’ipotesi dei due linguisti americani Edward Sapir e Benny Lee Whorf, secondo cui il linguaggio non è solo uno strumento per orientarci nel mondo, ma influenza anche il modo di comportarci. Le parole che usiamo, insomma, condizionano la nostra mente: ergo, se correggo le parole del pregiudizio, correggerò anche i pregiudizi, l’emarginazione, la violenza. Suggestivo: ma è davvero così? Dopo 25 anni, le discussioni sono ancora accese: la CP, si dice, è nata nelle università statunitensi intorno al 1990. Ma la sua storia è molto più antica, precisa Geoffrey Hughes, nel saggio Political Correctness. La CP, infatti, è una forma di eufemismo, e l’eufemismo è sempre esistito: consiste nell’uso di una parola sostitutiva (“è deceduto”) o di una perifrasi (“è passato a miglior vita”) per attenuare un concetto offensivo, osceno o crudo (“è morto”). Le parole, infatti, non sono neutre: sono come spugne, assorbono le nostre emozioni. Dunque, africano e negro indicano lo stesso uomo: hanno la stessa denotazione, ma cariche emotive ( “connotazioni”) diverse: negro ci mostra quella persona come inferiore, incivile, pericolosa. Dunque, la CP è la creazione di nuovi eufemismi per difendere dall’emarginazione alcuni gruppi sociali: i migranti, ma anche i malati, gli anziani, le diverse sessualità. Un vocabolario disinfettato che serve anche a marcare i comportamenti inaccettabili o inappropriati. Ma chi stabilisce cos’è CP? L’espressione è nata davvero in ambito politico: non 25 anni fa negli Usa, come comunemente si crede, bensì 70 anni fa in Cina, ai tempi di Mao Zedong, quando l’ortodossia consisteva nelle indicazioni del partito comunista. L’espressione fu poi ereditata dal comunismo sovietico, ed è approdata in Occidente in senso ironico, per indicare gli intellettuali organici al potere.
«Nella Storia è sempre esistito chi decideva come dobbiamo esprimerci: basti ricordare la Chiesa, con la Santa Inquisizione e l’Indice dei libri proibiti», ricorda Hughes. Ma mentre in passato il politicamente scorretto riguardava la religione e il lessico osceno, oggi i temi scottanti sono altri: la malattia, i diritti animali, le differenze sociali... Dunque non solo realtà sgradevoli o imbarazzanti, ma anche categorie che vogliono essere trattate con più dignità: malati, detenuti, chi fa mestieri umili. E mentre in passato l’ortodossia era indicata da autorità riconosciute (il re, il papa) ora è cavalcata da più categorie sociali. Ma ha successo solo se riesce ad avere un sostegno mediatico: gli agenti di polizia penitenziaria vorrebbero essere chiamati così piuttosto che secondini, ma il nome non si è diffuso perché i giornali non l’hanno recepito.
EDUCAZIONE. In senso moderno, la CP ha una data di nascita: il 28 ottobre 1990, quando il New York Times pubblicò un articolo del filosofo Richard Bernstein. Nei mesi precedenti, le Università del Texas, di Berkeley e di Stanford avevano tenuto convegni critici sulla cultura occidentale, che emarginava neri, donne, gay. Era una presa di coscienza della multiculturalità degli Usa, composti di immigrati di tutto il mondo, e le sue radici risalivano alle rivendicazioni di femministe, neri e gay negli Anni ’70. Ora le università si ponevano il problema di come educare gli studenti al rispetto delle differenze: la CP nacque come insieme di parole e di regole per difendere le minoranze.
Ma le riflessioni erano iniziate molto prima. All’inizio degli Anni ’80, per esempio, si pose il problema di come chiamare una nuova malattia che mieteva vittime fra gli omosessuali: il virus Hiv. Inizialmente fu chiamata Grid: Gay-Related Immune Deficiency, ossia immunodeficienza correlata ai gay. Anche se gay era CP, l’acronimo fu contestato perché metteva all’indice un’intera categoria di persone per le loro scelte sessuali. La malattia non colpiva i gay in quanto tali, ma solo perché si infettavano col sangue. Così fu ribattezzata col più neutrale Aids (sindrome da immunodeficienza acquisita). I termini “corretti” nascono non solo coniando nuovi vocaboli: a volte si riciclano parole esistenti con un nuovo significato. “Terzo mondo”, per esempio, era un’espressione nata in Francia negli Anni ’50 per designare i Paesi che nella Guerra fredda non erano allineati né coi comunisti né con l’Occidente; poi è diventato sinonimo di Paesi poveri e arretrati.
FIORAIO E FIORISTA. «Ma si può essere scorretti in modo più sottile», avverte il semiologo Paolo Fabbri. «Si può insultare col tono di voce (“Quanto sei intelligente!”, intendendo il contrario) oppure coi suffissi: oggi nessuno vuole essere designato con parole che finiscono in -aio, -elio, -ino: il fioraio preferisce essere chiamato fiorista, lo spazzino è spazzatore ecc. La CP mostra che la lingua è impregnata di forze emotive, ed è in continua evoluzione: per esempio, il termine neutrale islamico sta diventando sinonimo di fanatico e terrorista. La CP non è un giochetto chic. Cambiare linguaggio è il primo passo per cambiare il mondo: chiamando le stragi parigine di novembre guerra e non attentati, il presidente François Hollande ha potuto legittimare i bombardamenti all’Isis in Siria». Non tutti sono d’accordo, però. Per Timothy Jay, psicolinguista del Massachusetts e pioniere degli studi sul turpiloquio, «imporre per decreto una lingua neutra, priva di pregiudizi, è impossibile. La CP è inefficace nello sradicare le ingiustizie: cura il sintomo ma non la malattia. Il linguaggio è secondario: bisogna intervenire sulla politica e sull’economia. Se si danno più soldi e potere alle donne, allora gli insulti nei loro confronti avranno meno efficacia. L’odio è un pensiero immaturo, ma non si può pretendere di renderlo fuorilegge. Conta fermare i crimini d’odio, non l’odio». Per la saggista britannica Melanie Phillips, la CP è un’operazione di facciata: «Può aumentare la consapevolezza, ma più che proteggere gli emarginati è usata per sbandierare la purezza morale di una parte politica. E introduce una doppia morale: un linguaggio ufficiale pulito, e un linguaggio privato senza censure».
TIEPIDI. In Italia, poi, la CP sembra ormai dimenticata: «Oggi c’è un calo di sensibilità sulle parole e perfino sugli insulti», osserva Sara Bentivegna, docente di comunicazione politica alla Sapienza di Roma. «L’Italia è divisa: l’integrazione degli stranieri e la tolleranza verso gli omosessuali non sono condivisi da tutti; la dipendenza da sostanze, la malattia mentale e la devianza lasciano tiepidi. E gran parte dei politici preferisce il pragmatismo alle riflessioni linguistiche: il leghista Roberto Calderoli, che paragonò a un orango la congolese Cecile Kyenge (ministro Pd), è stato salvato dall’accusa di istigazione all’odio razziale proprio dal Pd. Anziché difendere le minoranze etniche ha prevalso incassare il sostegno della Lega sulla riforma costituzionale».
ALLA BERLINA. Oltre che inutile, secondo alcuni la CP è anche dannosa: «È pericoloso giudicare una persona sulla base di una parola», osserva Edoardo Crisafulli in Formare alle differenze nella complessità (Franco Angeli). «A volte le parole “scorrette” sono dette senza conoscere o accettare i pregiudizi che incarnano. Così chi parla avventatamente, in buona fede, rischia di finire alla berlina, mentre il razzista subdolo, che si guarda dal dire ciò che pensa, non subisce ritorsioni». E la CP rischia di innescare un cortocircuito: «Per garantire pari dignità a tutti, si instaura una dittatura linguistica: ma in democrazia è vietato censurare».
E c’è di peggio. «Si cambia nome alle cose per renderle accettabili, senza cambiarle», aggiunge Crisafulli. «Si chiama danno collaterale una strage di civili, opportunità di carriera un licenziamento. E come la “neolingua” immaginata da George Orwell in 1984: una lingua artificiale per rendere impossibile il dissenso dal Potere costituito e occultare la verità. E poi, la CP è figlia di un relativismo assoluto che alla lunga è insostenibile: se esistono solo culture differenti e nessuna è migliore, allora dovremmo accettare anche la poligamia, il burqa, la lapidazione, l’infibulazione? È giusto che l’Occidente si misuri con le culture diverse. Ma non si può imporre la tolleranza tramite l’igiene verbale: è più efficace cambiare l’educazione a scuola».
Che conclusioni trarre? La CP è nata con ottime intenzioni, ma va vista per quello che è: un’utopia. E, come tutte le utopie, va maneggiata con cautela.