La Gazzetta dello Sport , 27 dicembre 2015
I sonniferi, la depressione, poi la cocaina: Paolini racconta tutto
Questa non è solo una storia di cocaina. Anzi. La positività al Tour ha affossato il «ciclista» Paolini, ma ha salvato l’«uomo». Questa è una storia di dipendenza da gocce di sonnifero che diventano indispensabili per vivere. Boccette portate di nascosto in camera. Compagne di strada quanto la bici, per cercare una vita normale. E la cocaina diventa l’ultima fermata di un viaggio nell’illusione. «Mi son messo io spalle al muro per capire l’essenza della vita. E ora non ho più una visione pessimistica di ciò che mi sta intorno».
Luca Paolini è milanese, a Quarto Oggiaro abitano ancora tanti parenti. Luca ha quasi 39 anni e una bella famiglia che lo aspetta a casa a Faloppio (Como). La moglie Elena, i figli Gaia (15 anni) e Filippo (3). Il corridore s’è fermato al controllo del 7 luglio: positivo alla cocaina, quantità infinitesimali, tanto che la stessa Uci parla di «assunzione in contesto ricreazionale». Nessuna voglia di prendere la polvere bianca per cambiare la prestazione. «Ma io, grazie all’episodio della cocaina, sono tornato a essere una persona. Sono tornato a vivere. Sì, sono stato un pivello, ma se questo diventa il prezzo da pagare per star bene come persona, lo accetto più che volentieri».
Paolini, da dove partiamo?
«Dal sonnifero che prendevo, gocce per dormire. Il principio attivo è la benzodiazepina. Ma crea una maledetta dipendenza. Io ne avevo bisogno alla sera, per riposarmi, per affrontare lo sforzo fisico e mentale del giorno dopo. Ho cominciato nel 2004 quando morì mio cognato (Marco Rusconi, fratello della moglie Elena, dilettante, ndr). Le prendevo, poi ho smesso, poi ho ripreso. Il vero problema è la vita di tutti i giorni, i problemi grandi e piccoli, e tutto questo si somma allo sport, alle tensioni, allo stress. A livello mentale ti intacca tanto. È qui che entra l’assunzione di quelle sostanze, è triste. E da quell’errore arrivi alla cocaina. Me ne assumo tutta la responsabilità e non ho scusanti. Ma racconto questa storia perché la gente non ripeta i miei stessi errori. E molto ha contato il mio carattere».
In che senso?
«Sono sempre stato orgoglioso. Non ho mai cercato l’aiuto da altri, pensavo sempre di essere un peso, cercavo di fare da solo. Gli anni che passano, le aspettative, il non voler mai tirarmi indietro e aiutare i miei capitani, da Kristoff a Rodriguez, e poi correre sempre, venti giorni dopo il Lombardia già in sella, in gara a gennaio, le classiche, il Giro, il Tour: tutto questo alla fine mi ha destabilizzato. Le tensioni sportive, i programmi forse anche sbagliati, le responsabilità. Per questo pensi a un farmaco che ti possa far dormire bene per ripartire il giorno successivo. Al mattino mi svegliavo e stavo benissimo, l’adrenalina combatteva le benzodiazepine. Ma i problemi arrivavano quando la bici finiva. Lo sport vive la situazione della società di oggi. C’è la crisi, meno squadre, meno corridori, meno posti di lavoro. Lo sport fatto ai nostri livelli ti logora e se non riesci a gestire le tue forze... Non so se avrò più la possibilità di attaccarmi un numero sulla schiena, ma questa è la lezione più grande che ho ricevuto: non devi nascondere tutto dentro quando hai i problemi. Va cercato aiuto».
Dal 2004 ha continuato a prendere il sonnifero?
«Negli ultimi due-tre anni l’ho usato sempre, a casa e alle corse. Ero dipendente, lo compravo con regolare prescrizione: non è vietato. Le gocce non bastavano mai. Alterano l’umore, i ritmi sonno-veglia, e quando le sospendi entri in depressione. Ti crea dipendenza. Sì, ho cercato di togliermelo dai piedi, ma è stata una dura lotta. Avevo attacchi di panico, ansia, malessere. Non un bel vivere. I medici si chiedevano come potessi correre. Il peggio arrivava di sera, quando le benzodiazepine prendono il sopravvento sulle tue forze. Basta poco e perdi la lucidità. E arrivi alla cocaina. Per me è stato inevitabile, l’ho fatto senza quasi essere consapevole di farlo. Ero solo quella sera, ero solo durante il ritiro di due settimane in montagna a metà giugno prima del Tour, quando ho preso la cocaina. E non posso perdonarmelo. Sono marito e padre, sono uno sportivo di rilievo, tanti ragazzi mi prendevano a esempio, ho ferito una generazione che credeva in me. È questo che mi fa male».
In squadra si conosceva la sua situazione?
«I medici mi hanno sempre sconsigliato dal prendere quel sonnifero, ma la dipendenza era più forte di tutto, tanto che le boccette sono arrivato persino a portarle in camera di nascosto. Ti immergi in una realtà diversa e quanto siano potenti gli effetti li capisci solo dopo, ed è tardi».
Torniamo alla cocaina.
«Ho capito subito che questa situazione non era capitata per caso. Mi ha ammazzato dal lato sportivo, mi ha fatto rinascere dal lato umano. Senza, non so se ce l’avrei fatta ancora. La cocaina mi ha fatto aprire gli occhi e capire quanto era la dipendenza dal sonnifero. Mia moglie, i ragazzi, gli amici veri, non potevo farcela da solo, e ho chiesto aiuto. Ho cominciato la disintossicazione».
Ci aveva già provato.
«Ad agosto sono andato a Verona dal professor Fabio Lugoboni, responsabile della Medicina delle dipendenze dell’azienda ospedaliera universitaria. L’avevo già contattato l’inverno scorso, mi disse “se non vuoi venire qui a disintossicarti facciamo una scaletta per ridurre al minimo le gocce. Ma non pensare che sia facile smettere da soli”. Non ce l’ho fatta, tanta era la dipendenza».
Stavolta però ha seguito il consiglio.
«Sì, in clinica a Verona, per due settimane ad agosto. Ero schiavo di quel sonnifero, ero davvero triste. Ho cominciato a disintossicarmi con un farmaco antagonista, che m’ha tolto la dipendenza. Era un passo che dovevo fare. Mi son ritagliato uno spazio di tempo per ascoltarmi, e questo percorso è stato una bella parentesi della mia vita, la mia vittoria più importante. Quando ne esci sembri incredulo. Ero schiavo, ho saputo fare i conti con me stesso».
Com’è ora la sua vita?
«Ho riallacciato amicizie con tante persone che mi volevano bene, ma che io non capivo, e mi isolavo. Adesso capisco quanto erano caldi gli abbracci della mia famiglia, le parole di mia moglie, gli occhi di mia figlia, e so come apprezzarli. Mi sono confrontato con loro a viso aperto, e’ stata dura. Ora sono più sereno, equilibrato, tranquillo. Prima, avevo persino timore di presentarmi alla gente, stavo malvolentieri con gli altri, e pensare che tutti mi apprezzavano per il modo quasi da giullare che avevo».
Che cosa fa adesso?
«Vado a portare e a prendere i figli a scuola e all’asilo. Non penso più in negativo. Sono anche risalito in bici, e a ottobre... mi hanno investito. Mi sono fratturato la scapola sinistra e tre costole, tre giorni di ospedale. Cammino in montagna e scrivo. Ho scritto tutto, le mie sensazioni, ed è bello rileggerle adesso che sono una persona nuova. Ho iniziato a pensare non solo al ciclismo».
Che cosa le rimane?
«Un messaggio per i giovani. Va bene essere campioni, ma bisogna capire i segnali che arrivano dal corpo e dalla mente. Pensi di essere un superman e invece ti guardi allo specchio da uomo e capisci che, se sbagli, ne paghi il conto. Raccontare aiuta. Non aprirsi, non condividere i propri problemi ti porta alla mia situazione. E questa intervista la dovevo anche a me. Avevo bisogno di parlare e spiegare».