La Gazzetta dello Sport, 27 dicembre 2015
Il tritolo a Capaci mentre il Palermo retrocedeva in Serie C
È tutto tranquillo, il traffico scorre via veloce sull’autostrada A29, nessun intoppo, il pullman arriva all’aeroporto di Punta Raisi in perfetto orario. Non ci sono tifosi ad aspettarli: l’indifferenza ha preso il posto della rabbia. I giocatori del Palermo scendono, prendono i bagagli e si avviano verso la porta degli imbarchi. Di lì a pochi minuti è previsto il decollo dell’aereo che li porterà a Napoli; poi ancora un viaggio in corriera fino ad Avellino. Il giorno successivo, allo stadio Partenio, quei ragazzi si giocheranno la salvezza. Campionato di serie B, trentacinquesima giornata, ne mancano soltanto quattro alla fine: il Palermo ha 31 punti, l’Avellino è all’ultimo posto con 27. Volti tirati, barbe lunghe, nessuno sorride. È stato uno strano campionato, e ci si capisce poco anche adesso che si è alle battute finali. L’allenatore Gianni Di Marzio non dice una parola, perso com’è tra dubbi e pensieri. Sono le cinque di pomeriggio di sabato 23 maggio 1992.
IL BOATO L’aereo parte regolarmente, il volo sarà breve. Sull’autostrada le macchine viaggiano spedite, in aeroporto il lavoro prosegue pigramente, un timbro, un controllo, un sorriso veloce. A pochi chilometri da lì uomini di Totò Riina appollaiati su una collina aspettano un segnale: i minuti passano, ma ancora niente. Il sole di maggio comincia a bruciare, il sudore cola sui volti. Alle 17.40 il trillo di un telefonino: tutto secondo i piani. Dall’aeroporto si snoda un corteo di auto: il giudice Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo sono arrivati, gli uomini della scorta li sono andati a prendere e ora si dirigono verso Palermo. Tre macchine in fila: una Croma marrone, una Croma bianca e una Croma azzurra. Percorrono qualche chilometro, sempre a velocità elevata, poi all’altezza dello svincolo di Capaci il cielo si oscura: un boato, fuoco, fiamme, pare di essere in un film di guerra. Cinquecento chili di tritolo, l’asfalto dell’autostrada squarciato come un animale al macello. Una cosa mai vista. Le auto che volano come uccelli impazziti e atterrano dove non c’è più speranza. Sono le 17.58, e il mondo si ferma. Muoiono gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo vengono estratti ancora vivi dall’auto e moriranno in ospedale. Si salvano gli agenti della terza auto e l’autista di Falcone, Giuseppe Costanza. Quest’ultimo non guidava perché il magistrato aveva deciso di stare lui al volante. Fosse rimasto sul sedile posteriore, Falcone si sarebbe probabilmente salvato. Nel carcere dell’Ucciardone, appena giunge la notizia, alcuni mafiosi detenuti stappano bottiglie di champagne.
L’ORRORE In un albergo di Avellino i giocatori del Palermo si preparano a vivere le solite ore di vigilia tra noia, partite a carte e qualche chiacchiera. Qualcuno va nella sala della televisione e, dopo qualche istante, bianco in volto, corre a chiamare i compagni: «Venite!... Venite!...». Stanno trasmettendo le prime immagini dell’attentato di Palermo. Un inferno. I giocatori restano davanti allo schermo senza dire una parola, gli occhi sgranati a osservare quello che nemmeno la fantasia potrebbe immaginare. La scena è dominata da un enorme cratere, quattordici metri di diametro. Uomini in divisa si aggirano tra i detriti, parlano freneticamente tra loro, camminano e scuotono la testa. Il ronzio degli elicotteri fa da sottofondo. La sala dell’albergo, d’improvviso, si fa piccola, troppo piccola per contenere tutti: ci sono i giocatori del Palermo, Pino Taglialatela e Felice Centofanti, Cecconi e Bresciani, Rizzolo e Pocetta, Valentini e Vinti, e poi gli altri, l’allenatore Di Marzio, i dirigenti, i collaboratori, non manca nessuno. Il silenzio di quegli istanti è assoluto: atterrisce. Poche ore dopo quei ragazzi dovranno scendere in campo per giocare una partita di pallone, ma come si fa?
LA PARTITA Trovare la concentrazione, in certe condizioni, è praticamente impossibile. Le gambe non hanno energie, i muscoli non rispondono, la testa è da un’altra parte. A quelli del Palermo, più o meno, accade così. Segna Bresciani nel primo tempo, ma nessuno s’illude. E infatti, nella ripresa, grazie anche alla spinta del pubblico ululante, l’Avellino si rimette in piedi, pareggia con Parpiglia e proprio allo scoccare del novantesimo realizza il gol della vittoria con Bertuccelli. I giocatori del Palermo, stanchi e spossati, non hanno nemmeno la forza di arrabbiarsi. Si lasciano andare, rientrano negli spogliatoi, fanno la doccia, salgono sul pullman che li porterà a Napoli e poi, di lì, in aereo di nuovo in Sicilia. Quando sbarcano a Punta Raisi, come alla partenza, nessun tifoso a contestare. Il Palermo sta scivolando verso la retrocessione, ma adesso importa poco. Anzi: nulla. C’è quel cratere sull’autostrada A29, un’immensa ferita da curare. E loro, i giocatori, chiedono all’autista del pullman che li riporta in città se possono vederlo, quello scempio, se possono inorridire di fronte a tanta brutalità. No, la strada è sbarrata, bisogna percorrere la «provinciale».
LA REAZIONE Tutta Palermo scende in piazza, manifesta, si ribella, urla contro la mafia. Il giorno dei funerali la città fa sentire la sua voce al mondo intero. E anche i giocatori del Palermo partecipano e si commuovono. La domenica successiva, il 31 maggio, è in programma la partita contro la Reggiana. I tifosi scelgono quel palcoscenico per gridare il loro dolore: dopo il minuto di silenzio, liberano migliaia di palloncini verso il cielo. Su quei palloncini ci sono scritti i nomi delle vittime di Capaci. Che volino in alto e riposino in pace tra le nuvole.