La Lettura, 27 dicembre 2015
Il primo caso di corruzione sportiva risale al 267, quando ai giochi di Antinoopoli il lottatore Demetrio acconsentì a perdere la gara per 3.800 dracme
È un «contratto per perdere una gara di lotta». Nulla di strano, si dirà, nell’età di calciopoli. In realtà quello che ha scoperto Dominic Rathbone della London University è contenuto in un papiro da Ossirinco (l’odierna El-Bahnasa in Egitto) e risale al 267 d.C., durante la 138ª edizione dei giochi in onore di Antinoo, il favorito dell’imperatore Adriano che durante un viaggio in Egitto nel 130 d.C. era annegato nel Nilo in circostanze misteriose.
I giochi si tenevano ad Antinoopoli, la città fondata dall’imperatore sul luogo della disgrazia. Il contratto riguarda la finale di lotta della categoria dei giovani. Demetrio, uno dei due lottatori, acconsente a cedere la vittoria a Nicantinoo in cambio di 3.800 dracme, da pagarsi in anticipo ai suoi agenti. I due concorrenti dovevano essere minorenni, poiché Demetrio è rappresentato da due garanti, probabilmente gli allenatori, Nicantinoo invece dal padre Aquila, sommo sacerdote della città, il quale scrive, o, più probabilmente, detta allo scriba: «Egli – Demetrio – si impegna con mio figlio Nicantinoo, quando gareggerà contro di lui nella gara di lotta dei ragazzi, a cadere tre volte e poi arrendersi».
Il contratto prevede che se, nonostante la collaborazione di Demetrio, i giudici avessero deciso di non assegnare il primo premio (una corona d’oro), Demetrio non sarebbe stato perseguito e non avrebbe dovuto restituire i soldi. Se Demetrio invece avesse in qualche modo rotto l’accordo, i suoi agenti avrebbero dovuto pagare una penale di 18 mila dracme a Nicantinoo.
Nonostante il tono formale del documento, è chiaro che ci troviamo di fronte a una transazione illegale, dato che l’eventualità che i giudici decidessero di non assegnare il premio è ritenuta indesiderabile e imbarazzante: «Possa questo non accadere!».
Sappiamo infatti che i giudici, se sospettavano che la gara fosse truccata, potevano consacrare la corona della vittoria agli dei.
È il primo caso di corruzione in una competizione sportiva emerso dai papiri, sebbene abbiamo indizi che si trattasse di una tradizione più antica e diffusa. Pausania, nel II secolo d.C., racconta che, con i fondi delle multe imposte agli atleti, a Olimpia erano state innalzate numerose statue di bronzo a Zeus, e ricorda vari casi, dal IV secolo a.C. in poi, fra cui quello del padre di un lottatore che aveva corrotto il padre dell’avversario. Un secolo dopo, Filostrato racconta che gli avversari di Nerone nella sua tournée poetico-sportiva in Grecia adottarono la tecnica dei «lottatori che cadono» per non far sfigurare il permaloso sovrano. Lo scrittore accenna poi a un fatto dei suoi giorni: «Un ragazzo vinse nella gara di lotta alle feste Istmiche a Corinto, promettendo all’avversario la cifra di 3.000 dracme. Quando il giorno dopo andarono al ginnasio e il secondo chiese la somma pattuita, il ragazzo disse che non la doveva perché l’altro aveva opposto resistenza. Siccome non si accordavano, andarono nel tempio, dove il ragazzo dichiarò di avere venduto la gara in onore del dio ad alta voce, rompendo il sacro silenzio».
Per Filostrato, la degenerazione dello sport era colpa degli allenatori, che tenevano in pugno le carriere dei loro atleti, rovinandone la reputazione e lucrando da scambi illeciti. Nel caso di Nicantinoo, o «vittorioso Antinoo», invece, il ruolo del padre come sommo sacerdote del culto imperiale fa capire che la vittoria era importante non solo economicamente, ma soprattutto per la sua rilevanza politica. Il sommo sacerdote curava l’immagine pubblica dell’imperatore, e spesso era anche il principale sponsor delle gare atletiche, veicolo di propaganda per la sua grande influenza sulle masse. L’ottica era quella tutta romana del do ut des. Le comunità locali offrivano doni, templi e giochi che esaltavano l’imperatore come un dio, ma se questi li accettava, poi era tenuto ad esaudire le loro richieste.
Questo schema ripetitivo di «petizione e risposta» dimostra come le politiche imperiali siano difficilmente inquadrabili come un pacchetto imposto dall’alto, poiché spesso le decisioni erano misure ad hoc stimolate dal basso. Per una città di provincia, una vittoria ai giochi era spesso determinante per ottenere l’appoggio imperiale in questioni ben più scottanti, come l’autonomia locale, il rapporto con gli stranieri, lo status fiscale. Alla morte di Antinoo nel 130, ad esempio, moltissime città greche avevano fatto a gara per creare luoghi di culto in memoria del giovane, per far piacere ad Adriano. L’imperatore, però, avrebbe dovuto prestare ascolto alle loro richieste.
Nel caso del nostro documento, si deve tenere conto che il regno di Gallieno aveva rappresentato in Egitto e altrove un eccezionale interludio di pace e di ripresa culturale ed economica dopo il periodo più difficile dell’anarchia militare. Nel 262, Gallieno aveva promulgato un editto di tolleranza nei confronti dei cristiani, indirizzato a Dionigi, vescovo di Alessandria, e a tutti i vescovi d’Egitto, in cui riconosceva la personalità giuridica dei cristiani e ne restituiva in alcuni casi le proprietà confiscate.
Anche nei rapporti con le città e le classi greche, in Egitto e altrove, Gallieno posava come un filantropo e un imperatore della pace, rifacendosi esplicitamente all’esempio di Adriano, con cui si identificava forse anche per l’omosessualità.
La città di Antinoopoli, creatura di Adriano, e i giochi di tipo greco che commemoravano Antinoo assumevano dunque una particolare importanza nel discorso politico di Gallieno. Probabilmente, la gara di lotta di Nicantinoo fu pilotata dal padre per mantenere buoni rapporti con l’imperatore.
Insieme ai giochi di tipo greco, gli incontri di lotta dei gladiatori (munera) e le corse con i carri, diffusi in tutte le province insieme al culto dell’imperatore, erano il principale collante culturale di un impero multietnico ed eterogeneo. Si trattava di performance culturali in cui tutti gli strati sociali, riuniti nell’anfiteatro, imparavano a riconoscersi nei valori e nell’ideologia ufficiale. Promuovendo idee di valore militare e gerarchia sociale, servivano a mettere in contatto le diverse culture locali con il potere centrale, facendole sentire parte di un comune mondo di valori e infine inducendole ad accettarlo. Di mattina avvenivano le venationes, in cui si cacciavano le bestie feroci. A mezzogiorno avevano luogo le esecuzioni dei criminali, mentre la parte più popolare, gli incontri di lotta dei gladiatori, in gran parte stranieri, si tenevano nel pomeriggio. Il pubblico, così, assisteva prima alla vittoria sulla natura, poi alla repressione degli uomini che non potevano essere inclusi nella società, e infine alla lotta degli stranieri e degli emarginati per l’integrazione. Con grida e gesti, gli spettatori potevano influire sul destino di questi ultimi. Se dimostravano virtus, e se sopravvivevano a molti combattimenti, i gladiatori potevano infatti essere liberati e perfino acquisire la cittadinanza romana.
Dopo il declino dei munera, in seguito all’opposizione cristiana agli spargimenti di sangue nell’arena, nella capitale dell’impero bizantino, la Costantinopoli cristiana, le corse con i carri di tipo pagano rimasero lo sport principale dal IV fino all’XI secolo. L’ippodromo, posto accanto al palazzo reale e collegato al seggio imperiale, era il luogo nevralgico della comunicazione fra l’imperatore, sempre più inaccessibile, e i sudditi. Spesso era anche la sede di scontri e violenze, regolarmente represse nel sangue, fra i tifosi delle squadre principali, i Blu e i Verdi. Queste fazioni erano diventate a loro volta una forma organizzata di sport di massa, articolata in gruppi, attraverso cui una minoranza di spettatori atipicamente aggressivi sfogava la propria rabbia, o gioia, solo per il gusto della violenza fine a se stessa. È ironico constatare l’incredibile durata storica di questa degenerazione dello sport.