La lettura, 27 dicembre 2015
La fede pubblicitaria: tra caffè paradisiaci, Suv divini e preti con gli anfibi la religione si fa marketing
La religione è sempre più pubblica. I simboli delle fedi prendono un posto nuovo e importante nella nostra vita. Ci accaloriamo per il presepio e per il velo delle donne islamiche; ci rendono ancor più sensibili il Giubileo e il Natale. Nel loro farsi pubbliche attraverso i simboli, le religioni si sono adeguate alla società del consumo. Competono per farsi scegliere, padroneggiano le tecniche di marketing, usano la pubblicità.
La relazione tra marketing e simboli religiosi nella piazza pubblica è tuttavia molto più di questo. Osservando meglio, ci accorgiamo che, come la religione usa la pubblicità, anche la pubblicità usa la religione. Il sociologo Carlo Nardella ha appena dedicato alla questione il libro La migrazione dei simboli. Pubblicità e religione (Guerini e Associati), in cui il lettore trova un’attenta ricostruzione del fenomeno e un’acuta ipotesi interpretativa.
Lo studioso della Statale di Milano ha analizzato l’uso di riferimenti religiosi nella pubblicità a stampa apparsa su un ampio campione di riviste italiane dagli anni Cinquanta a oggi, compresi, per l’ultimo quindicennio, i supplementi del «Corriere della Sera» e di «Repubblica». È emersa una crescita nel tempo del ricorso dei pubblicitari alla religione, e una presenza della religione nelle pubblicità svincolata dal calendario liturgico. In particolare, la presenza di riferimenti religiosi nelle inserzioni durante le festività natalizie si è dimostrata non significativamente superiore a quella di altri momenti dell’anno. Tra le categorie di riferimenti religiosi più presenti, senza sostanziali variazioni nel cinquantennio analizzato, figurano paradiso e inferno, angeli e demoni, i santi e la tentazione. Risulta invece in declino il ricorso al clero e ai religiosi, e in crescita il richiamo alle religioni orientali e alla spiritualità New Age.
I dati dell’indagine inducono Nardella a ritenere che i valori veicolati dalla pubblicità mediante l’uso della religione siano sostanzialmente mutati nel tempo. Valori un tempo associati ai prodotti pubblicizzati mediante la religione – quali la famiglia, la saggezza e la praticità – sono divenuti marginali, mentre sono cresciuti valori quali lo status, l’alto costo, la libertà e la vanità. Il sociologo conclude che i simboli religiosi nella pubblicità vengono utilizzati oggi in relazione a sistemi valoriali associati a «desiderio di distinguersi dagli altri, compiacimento di sé e del proprio corpo, partecipazione collettiva, fiducia e sicurezza». La materia religiosa è risultata dunque assai adattabile ai mutamenti culturali del pubblico delle inserzioni pubblicitarie. La tentazione biblica, che negli anni Cinquanta s’identificava con la solidità di un elettrodomestico, è oggi usata per promuovere un accessorio di moda. Dietro il paradiso della Lavazza, il presepio della Diesel, l’Adamo ed Eva della Valtur, il prete in stivali di Bata, c’è dunque ben più che la furba bizzarria del creativo di turno.
Sarebbe superficiale, scrive l’autore, spiegare il crescente ricorso alla religione nella pubblicità con «l’attribuzione all’industria pubblicitaria di una volontà perversa di sfruttamento spiegata attraverso la presunta “malignità”» dei pubblicitari. Ciò che sta avvenendo, secondo Nardella, è invece legato, in profondità, alla fine del monopolio delle istituzioni ecclesiastiche sui simboli religiosi. Quando integrati nelle pubblicità, spiega l’autore, i simboli delle fedi «appaiono al pubblico non più come parte di un sapere che richiede la mediazione di esperti religiosi, bensì come un sistema di conoscenza condiviso e noto a tutti». Mentre la religione tradizionale perde il controllo sui propri simboli, il sistema della pubblicità trae dalla sua sintonia commerciale con il pubblico un «patrimonio di credibilità» – l’espressione è di Gustavo Guizzardi – grazie al quale può permettersi di sfidare l’autorità religiosa.
Messaggi come il «non avrai altro Suv al di fuori di M.» della Mercedes sono allora, scrive Nardella, il segno che «il campo pubblicitario tenta di appropriarsi del consenso su un sistema simbolico prodotto e mantenuto nel tempo da specialisti religiosi». Se il pubblicitario può ormai trasformare il simbolo religioso in strumento per l’identificazione del consumatore con una marca, ciò significa, per l’autore, che una «migrazione dei simboli è in corso». Il simbolo non appartiene più esclusivamente al contesto originario, ma diviene, scrive ancora Nardella, una «soglia» attraverso cui accedere, di volta in volta, a un sistema religioso o commerciale compatibili e intercambiabili.
La pubblicità, se ha ragione l’autore, è ormai legittimata a reinventare la mela e il serpente, Mosè e la Vergine Maria. Sembra grande la sfida di una religione che fa pubblicità. È ancora maggiore la sfida di una pubblicità che fa religione.