Il Sole 24 Ore , 27 dicembre 2015
Savonarola e la triste cronaca del Falò delle vanità
«Il carnovale seguente, che era costume della città far sopra le piazze alcuni capannucci di stipa e altre legne, e la sera del martedì per antico costume arderle queste con balli amorosi (…) si condusse a quel luogo tante pitture e sculture ignude molte di mano di Maestri eccellenti, e parimente libri, liuti e canzonieri che fu danno grandissimo». Con parole che esprimono addolorato sbigottimento, Giorgio Vasari riferisce la triste cronaca del Falò delle vanità, voluto dal frate domenicano Girolamo Savonarola il 7 febbraio del 1497 a Firenze. L’intento del rogo era quello di indurre il popolo al pentimento e alla penitenza, colpendolo in quello che aveva di più caro, quell’arte e quella bellezza che in epoca rinascimentale abbracciano il moderno laicismo affrancandosi dalla cultura medievale. Furono bruciati dipinti, a quanto pare anche di Botticelli, libri di poesia profana, strumenti musicali tra i quali liuti. Dopo la caduta del governo di Piero de’ Medici, dal 1494 a Firenze vigeva uno stato di restaurazione repubblicana capitanata da Pierantonio Soderini, che fu affiancato proprio dal frate-“profeta” Savonarola, il quale intendeva infondere nella nuova costituzione fiorentina le motivazioni di un governo teocratico. L’invasamento profetico di Savonarola si fondava sulla possibilità che la religione drizzasse il timone della politica sulla giusta rotta, nonché sulla constatazione di una più che evidente e profonda corruzione sia della politica sia del clero: di tale stato di «corruttela» il popolo fiorentino era talmente stanco, da essere indotto addirittura ad abbracciare – seppur per brevissimo tempo e non senza nemici in città -, le proposte teocratiche del frate. Le accuse di anti-umanesimo rivolte al frate sono oltreché motivate. Se non fosse che lo stesso Savonarola era stato in gioventù un amante della musica, suonatore proprio di liuto – lo strumento che arse nelle fiamme del rogo – e della poesia. Certo, lo fu a modo proprio, come si evince dalle polemiche da lui scatenate contro le melodie musicali liete, la polifonia e l’uso dell’organo nelle chiese, tutte fonti sensibili di perversione spirituale. Nel Codice Borromeo, poi, rinvenuto nel 1970 da Giulio Cattin presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, si trova un taccuino di poesie dello stesso Savonarola: un canzoniere contenente 3 sonetti, 6 canzoni e 5 laudi, oggi edito per i tipi del Melangolo con la cura di Giona Tuccini e il titolo di Rime. Nell’Apologeticus de ratione poeticae artis, Savonarola spiega come la poesia sia uno strumento complementare dell’eloquenza omiletica, come egli dimostra in quei celebri componimenti nei quali accusa la presente corruzione, De ruina mundi e De ruina Ecclesiae. Eppure, nemmeno lui era riuscito a sfuggire alla seduzione della bellezza emanata dalla poesia laica: al di là dei contenuti squisitamente spirituali, la forma poetica delle sue Rime è frutto di una profonda conoscenza della poesia profana del ’300, in primis del Canzoniere (Rerum Vulgarium Fragmenta) di Petrarca, dal quale il frate mutua calchi quasi perfetti. Espressioni che rinviano alla mistica religiosa come «l’amorosa piaga», riproducono chiaramente l’eco di versi petrarcheschi come «l’alta piaga amorosa». Tali numerose annotazioni filologiche mostrano come, a dispetto della sua ideologia teocratica – tanto anacronistica e medievale quanto efferata nei modi -, in campo artistico Savonarola non riuscì a voltare del tutto le spalle all’avanzare del laicismo estetico rinascimentale, non riuscì del tutto a non essere un uomo del suo tempo.