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 2015  dicembre 27 Domenica calendario

L’Italicum è più utile alla Spagna che all’Italia. Ricolfi spiega perché

Forse nei paesi europei del Nord il problema non è ancora evidente, ma nei paesi mediterranei sì: le fratture che dividono gli elettori sono almeno due. C’è la vecchia frattura fra destra e sinistra, sempre meno nitida. E c’è la nuova frattura, sempre più profonda, fra chi ancora si riconosce nel progetto europeo e chi vorrebbe buttarlo alle ortiche. 
Il segno più riconoscibile del cambiamento sono i nuovi partiti anti-europei di massa: Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, il Fronte nazionale di Marine Le Pen in Francia, ma anche il Blocco di sinistra in Portogallo che alle ultime elezioni (ottobre 2015) ha superato il 10% dei consensi.
E in Italia?
In Italia i partiti esplicitamente anti-europei sono addirittura tre: Movimento Cinque Stelle, Lega Nord, Fratelli d’Italia. Messi insieme raccolgono circa il 50% delle preferenze espresse.
Questo significa che, ormai, i nostri sistemi politici stanno diventando tripolari, con un terzo polo anti-europeo contrapposto ai due poli tradizionali della destra e della sinistra? Dobbiamo pensare che il conflitto politico in Europa sarà sempre più una lotta a tre, fra destra, sinistra e anti-europei?
Propendo per il no, e questo per due distinti motivi. 
Il primo è che l’ostilità nei confronti delle istituzioni europee è un sentimento molto diffuso anche nelle formazioni politiche più tradizionali. Un partito di destra tradizionale come Forza Italia non si può certo definire europeista. Quanto ai partiti di matrice socialista, la critica dell’austerity europea è ormai diventato il loro leitmotiv, se non il loro principale tratto comune. Persino un partito ben poco socialista come il Partito democratico renziano non manca, all’occorrenza, di cavalcare gli umori anti-europei dell’elettorato. Tutto ciò fa sì che, quando esistono, le forze politiche esplicitamente anti-europee finiscano per raccogliere qualche simpatia anche fra gli elettori dei partiti fondamentalmente europeisti.
I recenti trend sulla crescita della produttività non ci inducono a essere ottimisti sul futuro. Nel 2014 la crescita globale della produttività totale dei fattori (total factor productivity, PTF), che misura la produttività combinata di capitale e lavoro, è stata pressoché pari a zero per il terzo anno consecutivo, in flessione dall’1% registrato nel 1996-2006 e dallo 0,5% degli anni della crisi del 2007-2012. E in base alle indicazioni il 2015 non è stato meno sfavorevole. Negli Usa i dati rivisti rilasciati all’inizio di dicembre indicano una produttività in aumento solo al 0,6% di anno in anno nel terzo trimestre. 
Se il tasso di crescita della TFP è di fatto sceso dalla media storica dell’1,5% l’anno a quasi zero in paesi come gli Stati Uniti, gli standard di vita dei giovani di oggi aumenteranno molto più lentamente rispetto a quelli dei genitori. Qualsiasi incremento dipenderà interamente dai miglioramenti sul fronte dell’istruzione e della formazione, che sono assenti dai dati, e dagli investimenti in attrezzature e strutture, che sono depressi rispetto ai livelli storici. 
Economisti come Robert Gordon della Northwestern University sostengono che questo crollo della crescita di produttività rifletta la stagnazione a livello tecnologico. Secondo Gordon ci sono stati progressi epocali, dall’acqua corrente e dall’elettricità alla combustione interna e ai motori a reazione. L’effetto positivo dell’instant messaging e dei videogames sulla produttività e sul tenore di vita a confronto impallidisce. 
Per molti – e soprattutto per quelli di noi che vivono nei pressi di Silicon Valley – questa conclusione sembrerà poco plausibile. Assistiamo tutti i giorni ai progressi tecnologici nella robotica, nell’intelligenza artificiale, nella biotecnologia e nella progettazione di materiali. 
C’è un’ottica, popolare tra gli storici dell’economia, secondo cui ci vuole del tempo prima che si manifestino gli effetti di rilancio della produttività delle nuove tecnologie. In effetti, quando vengono lanciate delle innovazioni radicali, il loro effetto immediato è quello di ridurre, e non di aumentare, la produttività. L’elettricità, la nuova tecnologia studiata dall’eminente storico dell’economia di Stanford, Paul David, ne è un esempio. 
Come spiega David, prima che i motori elettrici venissero installati nelle fabbriche, i macchinari venivano posizionati attorno a motori a vapori centralizzati, a cui erano collegati tramite cinghie e pulegge. I motori elettrici autonomi consentirono alle macchine, agli operai che vi lavoravano e alle loro attività di essere tutte riorganizzate in modo più efficiente. 
Ma per questa riorganizzazione serviva tempo. Nel frattempo, le modalità di produzione prevalenti furono “disrupted” – termine della business school del ventunesimo secolo – causando una flessione della produttività. Ma questo crollo della produttività fu in realtà un’avvisaglia di tempi migliori. 
Un altro economista di spicco, Lawrence Summers di Harvard, ha obiettato che questa storia è incompatibile con un secondo trend recente, ossia il calo dell’occupazione degli uomini compresi tra i 25 e i 54 anni. Se la produttività è scesa temporaneamente perché tutti lavorano sodo per l’equivalente del ventunesimo secolo della riorganizzazione della fabbrica, il tasso di occupazione dovrebbe aumentare, e non diminuire, poiché le aziende continuano a funzionare con le vecchie “macchine alimentate a vapore” e allo stesso tempo aggiungono nuova “capacità elettrica”. L’occupazione degli uomini tra i 25 e i 54 anni dovrebbe crescere, e non diminuire. 
Ma ciò vale solo se le nuove tecnologie del ventunesimo secolo richiedono significative dosi di manodopera per essere sviluppate e installate, rispetto ai lavori che interrompono ed eliminano. Ma non è questo certamente il caso. 
L’esempio più chiaro, a mio avviso, è rappresentato dalle cartelle cliniche elettroniche (mia moglie è un medico), che hanno l’incredibile potenziale di incentivare l’efficienza della fornitura di assistenza sanitaria negli Usa. Anche oggi, la maggior parte delle informazioni sulla cura dei pazienti viene trasmessa tra cliniche e ospedali, e tra medici generali e specialisti, via fax e per telefono. È difficile immaginare un sistema meno efficiente – diverso da quello che tenta di coordinare la cura del paziente nel modo tradizionale intraprendendo la transizione verso la conservazione elettronica delle cartelle cliniche. Nuovi sistemi sono stati adottati e subito abbandonati una volta scoperte le carenze. Diverse cliniche mediche e ospedali stanno installando sistemi che sono incompatibili e incapaci di comunicare tra loro. 
Nel lungo periodo, i medici ripenseranno a tutto questo come a una sana sperimentazione. 
Per il momento, però, si trovano in una situazione difficile. Forniscono meno cure al paziente perché passano troppo tempo davanti ai portatili, immettendo dati che nulla, attualmente, aggiungono alla loro produttività. 
Inoltre, il numero di persone che lavora per sviluppare i sistemi medicali elettronici è esiguo rispetto al numero dei medici professionisti che patiscono gli effetti di questa imperfetta tecnologia di transizione. In effetti, il numero di queste persone potrebbe persino essere inferiore a quello dei medici professionisti che hanno abbandonato il campo per la frustrazione di non poter fornire le cure in base agli standard a cui sono stati abituati durante il percorso di studi. 
E coloro che desiderano ulteriori dettagli in merito possono rivolgersi a uno di questi ex medici: mia moglie. 
Traduzione di Simona Polverino
© PROJECT SYNDICATE 2015
Continua da pagina 1 A quanto pare la frattura fra destra e sinistra e quella fra amici e nemici dell’Europa si intersecano, e possono dar luogo a quattro segmenti di elettorato, e non solo a tre: ci sono i popolari e i socialisti, ma chi è anti-europeo può esserlo da destra (tipicamente, perché vuole meno immigrazione) o da sinistra (tipicamente, perché vuole meno austerità).
Ma c’è anche un secondo motivo per cui non è detto che i sistemi politici europei evolvano inesorabilmente verso qualche forma di tripolarismo. Lo ha illustrato assai bene su questo giornale Roberto D’Alimonte commentando il recente esito delle elezioni spagnole. Dalle urne sono usciti ben quattro partiti importanti, fra cui due tradizionali (Popolari e Socialisti) e uno nettamente anti-europeo (Podemos), ma il sistema politico – pur avendo cessato di essere bipartitico – non è per questo diventato tripolare, né tantomeno quadripolare. E questo per il semplice motivo che i primi due arrivati sono i Popolari e i Socialisti, ossia due forze politiche classiche, e anche il terzo e il quarto arrivato (Podemos e Ciudadanos) hanno una collocazione politica chiara sull’asse destra-sinistra, con Podemos più vicino ai Socialisti e Ciudadanos più vicino ai Popolari. Se la legge elettorale prevedesse un ballottaggio fra i due principali vincitori (Popolari e Socialisti), l’elettorato sarebbe chiamato a scegliere fra due alternative politiche relativamente chiare e ben delineate, e gli elettori anti-europei (Podemos) si limiterebbero, come è fisiologico in democrazia, a votare l’alternativa meno sgradita. In questo senso è giusta la posizione di chi vede nell’Italicum un buon antidoto al caos parlamentare che attende la Spagna.
Ma in Italia?
In Italia tutto fa pensare che il nostro sistema politico non sia più bipolare, anche ammesso che lo sia mai stato. Da noi un polo anti-Europa molto robusto esiste già, ed è guidato dal Movimento Cinque Stelle, che non è classificabile né come una formazione politica di destra, né, a dispetto dei desideri della sinistra antirenziana, come una formazione politica di sinistra. È vero, semmai, che il populismo anti-europeo di Grillo esercita qualche attrazione anche negli elettorati di forze politiche tradizionali come Fratelli d’Italia, Lega Nord, Sel, nonché nel variopinto mondo dei nemici di Renzi “da sinistra”. 
Insomma, se domani ci fossero elezioni i poli sarebbero tre e non due. A meno che la destra si inabissi come l’isola di Atlantide, lo scontro politico vedrà protagonisti il Pd, il Movimento Cinque Stelle, e un Centro-destra più o meno unito (e più o meno salvinizzato). 
Sarebbe un problema?
Con l’attuale legge elettorale, ovvero con l’Italicum, lo sarebbe. È paradossale, ma l’Italicum, nato per risolvere i problemi dell’Italia, appare tanto adatto alla Spagna quanto inadatto all’Italia. Un sistema che manda al ballottaggio i due principali partiti e conferisce al vincitore del ballottaggio la maggioranza dei seggi parlamentari è perfetto dal punto di vista della governabilità, ma lo è per definizione, come qualsiasi altro meccanismo (compreso il sorteggio), che generi un vincitore e gli dia automaticamente più della metà dei seggi. La prova del nove dei sistemi elettorali “automatici” non è ovviamente la governabilità (che è tautologicamente soddisfatta), ma la capacità di non rendere troppo casuale e arbitraria la scelta del vincitore. E questa, sfortunatamente, non è una proprietà intrinseca dei sistemi elettorali, come non è una proprietà intrinseca di un abito quella di vestire bene una persona. Non vedrei mai bene una giacca di Fassino addosso a Brunetta, ma non mi permetterei mai di dire che è una cattiva giacca. 
Così è per l’Italicum. Può essere un ottimo sistema in Spagna, forse anche altrove, ma in Italia?
In Italia le preferenze elettorali, piaccia o non piaccia, si strutturano intorno a tre poli. Il guaio dei sistemi tripolari è che è maledettamente difficile escogitare un meccanismo che, fra i tre ballottaggi possibili (A contro B; A contro C; B contro C) faccia emergere quello davvero più importante, dove per importante intendo capace di mantenere alta la partecipazione, e farlo intorno a due veri progetti di governo. Non solo, ma è perfettamente possibile che il destino di un governo uscente sia deciso da qualcosa di alquanto accidentale, come può essere l’ordine di arrivo dei partiti al primo turno. 
Esemplifico con il caos italiano. Tutti i sondaggi danno per scontato il fatto che il partito al governo (il Pd), che è anche il maggiore partito italiano, risulti il partito più votato al primo turno, e vada quindi al ballottaggio. Supponiamo che questa previsione assai ragionevole si avveri, e che il Pd conquisti il solito 30-35% dei voti (quota Veltroni-Berlinguer). Ma chi sfiderà il Pd al ballottaggio? Questo non solo è imprevedibile, ma è fortemente dipendente da circostanze decisamente contingenti, che ben poco hanno a che fare con le reali preferenze dell’elettorato. Il Centro-destra, ad esempio, potrebbe andare al voto con una coalizione più o meno ampia, e l’estrema sinistra potrebbe fare o non fare un’alleanza elettorale con il Pd. Tutte faccende che riguardano i movimenti dell’offerta politica, non certo gli orientamenti politici dei cittadini.
Ma i medesimi sondaggi che rivelano che il Pd è il probabile vincitore del primo turno, mettono in evidenza che, nel secondo turno, il destino del Pd (e quindi del governo Renzi) dipende in modo cruciale da chi lo sfiderà, ossia da chi sarà arrivato secondo nel primo turno: se il secondo arrivato (dietro il Pd) è il Centro-destra, il Pd vince il ballottaggio e Renzi resta in sella; se il secondo arrivato è il Movimento Cinque Stelle, il Pd perde il ballottaggio e Renzi deve tornare a casa. 
È ragionevole un meccanismo del genere?
Se i poli sono due, come in Spagna e in altri paesi europei, sì. Se i poli sono tre, e inoltre attirano più o meno i medesimi consensi, direi proprio di no. In Italia Movimento Cinque stelle e Centro-destra, i due sfidanti del partito al governo, sono entrambi prossimi al 30% dei voti. È perfettamente possibile che al primo turno ottengano percentuali simili. Al limite, se Grillo prende 1 voto in meno del Centro-destra il Pd resta al governo, se Grillo prende 1 voto di più del Centro-destra il Pd va all’opposizione. La sfida principale, tenerci il governo uscente o cambiarlo, viene decisa dalla sfida secondaria fra gli oppositori del governo. 
Forse, prima di entusiasmarci delle virtù dell’Italicum, dovremmo riflettere ancora un po’ sui suoi difetti.