il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2015
Zeichen e l’importanza di saper stare zitti (ma anche di ascoltare)
Autoritratto di Valentino Zeichen: “Io sono il protagonista di Una Cena Elegante di Robert Walser. Un estraneo che arriva in un posto, si siede, si vede offrire cibo, sorrisi e sigari e poi va via senza che nessuno abbia veramente capito chi sia”. “Mi sono sentito così per tutta la vita”, dice questo fiumano del ’38, mentre a un desco più anonimo delle regge romane a cui “sempre e solo da ospite non pagante” si è seduto per mezzo secolo, consuma un corpo a corpo con cornetto e caffellatte. A 77 anni, una casa vera e propria, il poeta Valentino Zeichen non ce l’ha. Abita da mezzo secolo in una baracca appoggiata sulla via Flaminia. Nel suo Idroscalo a tinte bohémien all’ombra di piazza del Popolo, nell’ipotesi di abitazione sostenuta da un fantasioso abusivismo, nella definizione di un ricovero che scegliendo nel dizionario potrebbe chiamarsi capanno, tugurio o casotto, Zeichen è stato benissimo: “Qualche volta mi è piovuto sulla testa, ogni tanto ho avuto freddo e qualche volta ho patito la fame. Ma la fame è amica. Penso di stare a dieta, mi tengo in forma, ragiono meglio”. Dei suoi versi in bilico tra surrealismo e tinello: “Nel tagliarmi le unghie dei piedi / il pensiero corre per analogia / alla forma della poesia”, Mondadori pubblicò l’opera omnia. Alla parabola in versi iniziata nel ’74: “La raccolta si intitolava Area di rigore perché il calcio mi è sempre piaciuto. Non visto attraverso le parole di Umberto Saba, di cui non mi fregava niente, ma con la passione di chi ogni tanto tirava due pallonate. Tifo Lazio e Giorgio Chinaglia l’ho anche conosciuto. Un selvaggio meraviglioso e sentimentale, molto simpatico, cresciuto alla scuola della rissa da pub”, Zeichen ha aggiunto un romanzo. Il primo. Ne La Sumera (Fazi, 156 pagine), ambientato nella Roma di fine Anni 70, tre ragazzi si muovono al centro di una scena in cui arte, amicizia, politica, signore ingioiellate, sogni, ambizioni, salotti, truffe, scopate, ascese, declini e tartine hanno pari dignità: “Ci mancherebbe, non sono mai stato un moralista”.
E cos’è stato?
Un conversatore. Uno che sa ascoltare. Ho capito abbastanza presto come stare in società.
E in società come si sta?
La prima regola per stare a tavola è saper stare zitti. “Come parla quello?”, chiedono del nuovo arrivato. “Sa tacere al momento giusto”, rispondono. È più importante il tuo silenzio di quel che dici.
A costo delle opinioni?
Per natura sono ribelle, ma la ribellione sguaiata dell’ospite non mi piace. Mi pare sempre sconveniente e di cattivo gusto.
Quindi quando non ha niente da dire o non è d’accordo tace?
Sto benissimo con il silenzio. Il silenzio mi fa guadagnare il coperto successivo. Quando ti assicuri la pietanza hai vinto comunque. Dai vari salotti ho avuto il brevetto. Sono stato schierato a tavola come un trofeo: “Abbiamo con noi anche il poeta”, dicevano felici i padroni di casa. E io sono stato al gioco. Arrivavo, mangiavo, sparivo nella notte.
Ogni tanto litigava?
Mai. Sempre silenzio e rispetto, senza nessuna antipatia. Se c’era poco dialogo e si taceva non poteva esserci spazio neanche per l’antipatia.
Quarant’anni di cene divise con un pezzo di Roma che non le apparteneva solo per qualche piatto di lenticchie?
Per poter scrivere. Da solo sto bene, ma in compagnia sto meglio. Ascolti, osservi, valuti e se capita, dialoghi. Oggi purtroppo la società letteraria non esiste più. È finita. E secondo me è tramontata per ambizione e per stupidità.
Si spieghi.
Perché Hollywood era la più grande concentrazione di intellighenzia media d’America? Perché registi, scrittori, sceneggiatori e produttori si incontravano a cena e parlavano. In Italia non accade più. Qui ciascuno pensa individualmente di poter scrivere in segreto la propria storiella ed è un errore grande. Per creare, inventare e immaginare bisogna stare insieme. Ci vorrebbe un editto obbligatorio per far sedere periodicamente gli intellettuali attorno a un tavolo.
E perché?
Perché possono venirti delle buone idee anche quando ti rompi i coglioni e non vedi l’ora di essere da un’altra parte. Devi confrontarti, anche nella noia. Anzi, più gli altri ti annoiano e meglio è.
E poi?
Osservare gli altri invece dello schermo del tuo iPhone. Prendere il telefono e buttarlo. Per due ore almeno. Non lo fa più nessuno, neanche a cena. Domina il solipsismo.
E cos’altro?
Il cattivo cinema e la pessima letteratura. Un film come La terrazza, se avesse compulsato freneticamente il telefonino, Ettore Scola non l’avrebbe mai pensato. Se non conversi non crei. Solo la ripetizione ossessiva delle conversazioni produce buoni dialoghi per un romanzo o per un film.
È vero che le piace Gabriele Muccino?
Sono un fedele mucciniano. Meriterebbe un plauso solo per aver valorizzato quell’attrice stupenda che risponde al nome di Giovanna Mezzogiorno. Quando Muccino la scopre ferita con il Dolly nella sua casa dei Parioli mette in scena un cinema notevole.
Ne è sicuro?
Sa girare e ha avuto il coraggio di affrontare una scommessa e di vincerla. È andato in America, si è seduto a tavola senza spocchia intellettuale, ha saputo aspettare il suo turno, ha girato qualche ottimo film. Qui Muccino è trattato come una pezza da piedi.
Qui in Italia?
Lo disintegrano, lo deridono, lo trattano come uno scemo. Una cosa strana.
Strana quanto?
Stranissima. Anche perché gli altri registi italiani, mi perdoni, che cazzo hanno mai donato all’arte nostra per potersi permettere di criticare Muccino?
Intanto Muccino ha criticato Pasolini: “Un non regista che usava la macchina da presa in modo amatoriale, senza stile”.
Pasolini non mi è mai interessato. Anni fa Laura Betti si chiedeva: “Perché non lo leggete?”.
E lei cosa rispondeva?
Che forse non lo leggevamo perché non ci sembrava granché e che la domanda era mal posta.
Come mai?
Pasolini in realtà lo avevano letto tutti. Pasolini era egemonico. Ed essendo egemonico, come le dicevo, mi interessava poco. Come Laura Betti d’altra parte. E sì che Laura era anche simpatica.
La simpatia è importante?
Dote importantissima, anzi fondamentale. Se non mi sei simpatico non iniziamo neanche a guardarci in faccia.
L’egemonia culturale è esistita?
Non c’è neanche da discuterne. Senza tessera non mangiavi. Ricorda gli intellettuali organici? Ecco, parliamo di mezza letteratura italiana o almeno di tutta quella parte che ha avuto successo. Non c’era concorrenza, solo spartizione. Io sono apolitico. Non ho mai avuto nessuna voglia di essere comunista.
E cosa ha avuto voglia di essere?
Un individualista. E non ne sono fiero. L’individualismo è una malattia. Una paranoia.
E il comunismo?
Quella è una malattia ancor peggiore. È diffusa. Ha fatto e fa ancora danni.
Lo pensava anche Berlusconi.
Berlusconi sarebbe stato un grande statista, ma quando quegli stronzi degli inglesi e dei francesi decisero di aggredire la Libia, defenestrare Gheddafi e lasciarci fuori da tutto, sarebbe dovuto andare in Parlamento e avrebbe dovuto dimettersi. Non lo fece e perse l’occasione di passare allo storia. “Viva le primavere arabe” scrivevano i giornali. Altro che primavere arabe: ma che cazzo state a di’? Avevano proprio sbagliato stagione.
Per descrivere il suo rapporto con le donne lei parafrasava Fitzgerald: “Le donne se ne sono andate perché il mio conto è sempre in rosso”.
Il capitale mette fine a ogni romanticismo. Lo interrompe. Fitzgerald è il mio scrittore preferito, dà sempre l’idea della fugacità. Ha una percezione del divenire molto marcata.
E cos’è il divenire?
È il tempo. È la successione degli atti, dei gesti, degli sguardi. C’è sempre una fine: due si guardano, lo scambio si conclude e non sarà mai più lo stesso. Tutto ciò allontana, separa, distanzia.
I poeti secondo Francesco De Gregori: “Però quando si impegnano lo fanno veramente/ convinti come sono di servire alla gente/ e firmano grandi appelli per la guerra e la fame/ vecchi mosconi ipocriti, vecchie puttane”.
È molto bella quella canzone, molto vera. Stimo De Gregori. Si è ancorato al melodico e la melodia è immortale. Lo ha capito Jonas Kaufmann, il tenore. Ha incensato Puccini e ha fatto bene. Puccini è il figlio di Wagner, anche e nonostante tutti i denigratori italiani: tutti verdiani, tutti coglioni.
I suoi amici?
Arrigo Montanari, Elio Pagliarani, Nico Garrone, il padre di Matteo, Giuseppe Conte, Valerio Magrelli ed Enzo Golino che fu il primo a incontrarmi a una serata mondana e letteraria e a voler leggere le mie poesie. Ne mandò alcune a Nuova Corrente. Giovanni Sechi, il fondatore, disse: “Vanno bene”. Iniziò così.
Cosa hanno fatto gli amici per lei?
Si sono preoccupati, sono stati affettuosi: “Cosa fai? Perché non vieni a cena? perché non parti con noi in vacanza?”. Ho visto posti bellissimi grazie agli amici.
Sempre senza pagare?
Rigorosamente. Il problema è che molti di loro non ci sono più. Mi accorgo che il tempo si è spostato: quello che ho davanti è molto meno di quello che è passato.
E invecchiare le dispiace?
È inaccettabile. Uno scherzo del destino assolutamente irriverente. Ne è valsa la pena però.
Quando le ragazze scoprivano la precarietà della sua tana e il tetto di plexiglas soggetto a infiltrazioni con cui lei sosteneva di poter vedere sole, cielo e luna cosa accadeva?
Qualche volta rimanevano, altre scappavano sconvolte: “Ma come?”, pensavano, “il cappotto, l’eleganza, il parlare forbito e poi mi porta in questa stamberga?”.
Nelle favole queste cose non contano.
Ma le favole non esistono, sono aleatorie, non c’è controvalore. Oggi c’è un tempo calcolatore. Economizzato. Sei quel che hai.
E lei continua a non avere niente.
E niente chiederò. Adesso non ha più importanza. Non ho mai chiesto nulla, neanche un prestito, anche se sapevo che lo avrei ottenuto. Avere la Bacchelli in tarda età sarebbe il disonore della mia vita.
Non le è mai capitato di essere invidioso di chi la ospitava sull’attico più bello della città per poi richiuderle la porta alle spalle?
Mai. Mi è capitato di chiedermi: “Ma questo tipo come è arrivato a ricoprire una certa posizione?”, ma non ne è mai importato nulla. Preferivo immaginare nuove imprese. Mai affidarsi all’invidia. E neanche al disprezzo o al giudizio. Meglio la scienza. La scienza non giudica.
Avere talento e morire poveri non è una fregatura?
Ma a un certo punto si deve morire comunque e in ogni caso, tra un po’, qualcuno inizierà a distribuire il cianuro. Garantito. Il finale sarà quello. Lo dico con dispiacere. A me la vita è piaciuta.
Sul Corriere della Sera Moravia scrisse che nei suoi versi c’era “Un’eco di Marziale”. Vite simili: molti libri scritti, molti stenti, qualche rara oasi di benessere.
Dopo Svevo, Moravia è stato il nostro scrittore più importante. Fu simpatico a dire quella cosa, fu gentile.
Marziale raccontava la Roma imperiale. Lei ne La sumera ha raccontato un momento irripetibile destino a trasformarsi in decadenza.
Sa chi ha raccontato bene Roma? Dino Risi nei minuti iniziali de Il Sorpasso. Il capolavoro assoluto di un regista incomprensibilmente sottovalutato. Una fotografia perfetta della solitudine dell’agosto romano.
Lei ha passato molte estati a Roma?
Molte. Ogni tanto andavo a Sabaudia. Un anno incontrai in spiaggia Roberto D’Agostino. Ero con un’amica, ma ero stato appena lasciato da una donna. Ero cupo, di una cupezza che mi tagliava in due. Lui mi invitò a casa sua, io fui scortese.
Dialogo?
“Ciao Valentino, vieni a cena da noi?”, “Ma lasciami perdere, ma vaffanculo”.
E D’Agostino?
Mi diede del coatto. “Sei un coatto”, disse. Non lo sono, ma in quella occasione non aveva torto.
Avete litigato?
Gliel’ho detto: io non litigo mai. Se lo incontro ci abbracciamo.
Chi altri abbraccerebbe?
Alberto Sordi. Un campione. Un genio. Un comico del cazzo che senza tante sovrastrutture capì l’Italia meglio di chiunque altro, anche da regista. Nel concerto di musica dodecafonica de Le Vacanze intelligenti c’è una delle fotografie più precise del conformismo che verrà. Sordi aveva previsto tutto.
Ne Le vacanze intelligenti Sordi irrideva le pretese del mondo intellettuale.
L’intelligenza è in superficie proprio come è in superficie la profondità. Più vogliamo essere profondi e più siamo ridicoli. Più vogliamo essere profondi e peggio è.
Lei arrivò a Roma a vent’anni. Nel 1958. Anche se qualcuno dubita persino della sua data di nascita.
È vera. Sono nato proprio nel 1938. Mia madre morì presto. Mio padre era giardiniere nelle stalle di Villa Borghese, lui e la mia matrigna decisero di mandarmi in riformatorio a Firenze. Tre anni da perito chimico in cui lessi molto e imparai a vivere in un contesto ostile.
Cosa avrebbe fatto se non fosse stato poeta?
Dal fattorino all’aiuto tipografo ho fatto di tutto. Sarei potuto diventare pittore o anche attore. Per due anni frequentai l’accademia teatrale di Pietro Sharoff che di Stanislavskij era stato aiuto regista. Lì incontrai Lando Buzzanca. Io leggevo André Breton, lui Pirandello. Ma ci capivamo lo stesso. Buzzanca era un cacciatore affascinante. Lui e il suo cosiddetto cinema spazzatura sono stati una grande risorsa per l’industria di allora. I film leggeri permettevano ad Antonioni e ai suoi amici di girare i loro. Per ogni merlo maschio o arbitro cornuto, c’era una Monica Vitti che poteva dire: “Mi fanno male i capelli”.
Buzzanca è stato cacciatore, ma le donne le ha amate anche lei.
Ma non caccio più da un pezzo, ormai sono finito in una riserva.