il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2015
Avere la ’ndrangheta sulla pelle. Il pentito Cortese spiega la simbologia dei tatuaggi, dall’arcangelo Michele al teschio dell’omertà
Sulla sua pelle, nascosti dai vestiti, porta i simboli e i segreti che lo hanno accompagnato per anni. Simboli religiosi, alcuni dai tratti esoterici, richiami alla morte, alla violenza e al sacro. Simboli della ‘ndrangheta. Sono i tatuaggi di Angelo Salvatore Cortese, 51 anni il prossimo 24 febbraio, un passato da braccio destro del boss Nicolino Grande Aracri e un presente da pentito. Con i suoi 23 anni di “militanza”, i tanti reati commessi per conquistare i gradi e gli anni in galera, Cortese è diventato un pezzo grosso dell’organizzazione criminale calabrese e ora è un collaboratore di giustizia chiave: ha contribuito a condannare Carlo Cosco, l’assassino di Lea Garofalo; ha svelato gli affari delle cosche crotonesi in Emilia-Romagna, ma anche in Piemonte.
È proprio nel capoluogo piemontese che questi tatuaggi sono stati svelati. Il 26 novembre, nel corso di un’udienza del processo “San Michele”, ne ha parlato ai sostituti procuratori della Direzione distrettuale antimafia di Torino Roberto Sparagna e Antonio Smeriglio, che poi hanno consegnato ai giudici una fotografia, un’immagine rara pubblicata in questa pagina.
“L’ho fatto fare nel 2007, nel pieno della mia attività criminale – racconta tramite il suo avvocato, Salvino Greco – Avevo raggiunto il grado di ‘Crimine’, un livello molto alto nella gerarchia ‘ndranghetistica”. Nei giorni nostri questi segni sono rari, come spiega Enzo Ciconte, studioso della ‘ndrangheta e docente di storia della criminalità organizzata all’Università di Roma Tre: “I tatuaggi erano molto più ricorrenti in passato. I camorristi napoletani ne avevano parecchi. Ma questo si spiega col carcere, dove era normale farsi tatuare. Non era sinonimo di mafia, ma semplicemente di malavita. Questi segni servivano a riconoscersi, ma poi gli ‘sbirri’ cominciarono a capire e quindi poi i tatuaggi sono scomparsi”.
Oggi ne hanno i criminali russi descritti da Nicolai Lilin, le gang di latinos portano le sigle e i nomi delle pandillas, i membri della yakuza si distinguono per i loro grandi tattoos nascosti sotto i vestiti e la mafia rumena a Torino si caratterizza per la croce templare sul braccio. Tra gli ‘ndranghetisti le incisioni sulla pelle non sono così diffuse: “Le fanno soltanto in pochi, precisamente alcuni personaggi di grosso spessore criminale – racconta Cortese – Io li ostentavo all’epoca e non avevo paura di far vedere questi tatuaggi”, ha detto ai giudici. Non ha intenzione di rimuoverli né ha paura di mostrarli ora che è un pentito: “Non devo rimpiangere il passato nel bene e nel male”.
Quei tattoos occupano quasi metà della superficie della sua schiena. Nella parte destra si vedono un angelo che schiaccia un demone, dei leoni, delle torri. In quella sinistra una composizione di figure. “Il tatuaggio sulla schiena rappresenta San Michele Arcangelo, santo protettore della ‘ndrangheta – afferma – L’ho fatto sia perché è il simbolo dell’appartenenza alla ‘ndrangheta, sia perché ha il valore del ‘dispari’ o dello sgarro, la dote successiva a quella di picciotto e camorrista”. Sgarro, picciotto e camorrista, parole del gergo mafioso che il professore Ciconte spiega così: “Lo sgarro è il primo grado della società maggiore della ‘ndrangheta, una struttura ristretta, mentre gli ultimi due appartengono alla società minore, subalterna alla prima. Il passaggio dalla minore alla maggiore è importante, si diventa un capo mentre prima si è solo un gregario”.
Insieme al santo, si notano delle torrette: “Alle spalle è rappresentato il carcere di Favignana, punto di riferimento e simbolo della custodia per i grossi personaggi dell’organizzazione”, continua Cortese. Quell’edificio e quell’isola sono dei luoghi mitologici, sottolinea Ciconte: “Sono nel cuore della leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, tre cavalieri in fuga dalla Spagna e latitanti per un delitto d’onore. Scappano e arrivano a Favignana, uno dei penitenziari più importanti del Regno Borbonico. Era la morte civile, non se ne usciva più. Ma i tre cavalieri, al termine di 29 anni, 11 mesi e 29 giorni, dopo aver coniato le leggi dell’onore, si separano e vanno in Sicilia, Calabria e Campania. In quella leggenda stanno insieme Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra, ma solo per la seconda è fondamentale”.
Il tatuaggio è composto anche da due leoni “legati con una catena formata da ventiquattro anelli più uno staccato, quindi 25, come la data di Natale. Questo rappresenta lo ‘sgarro’”, spiega il pentito.
Sulla spalla sinistra c’è un secondo tatuaggio: “Raffigura uno scheletro con un pugnale nella mano destra e con una bara ai suoi piedi. Davanti alla bara c’è il libro mastro aperto. Sulla pagina destra ha disegnata una stella, sull’altra c’è un ferro di cavallo sul quale sono incisi tre pugnali incrociati – dice Cortese per orientarci – Poi, fuori dal libro, c’è un calice e un teschio con sopra una candela accesa”.
Scheletro, bara e teschio ricordano la sua partecipazione a fatti di sangue, gli altri segni rimandano ai rituali. C’è il calice, citato nelle formule recitate durante le cerimonie. “Il libro mastro è sacro e racconta parole e favelle dello ‘ndranghetista – continua – La stella a cinque punte rappresenta la ‘copiata’, cioè le cinque persone che hanno partecipato al battesimo dell’affiliato, mentre il ferro di cavallo rappresenta il ‘circolo formato’”. Con questo termine, precisa il professore Ciconte, si intende il gruppo che partecipa al rituale: “Il giovane si affilia entra in un circolo formato dagli uomini più importanti della ‘ndrina. La simbologia del cerchio è importante perché entri nell’organizzazione che ti protegge. Attenti però, perché allo stesso tempo è una minaccia: se tradisci sei circondato”. Il teschio con la candela ricorda l’omertà: “Significa: ‘Non vedo, non sento, non parlo’”. Una regola che Cortese ha infranto con la decisione di allontanarsi dai clan.
Era il 17 febbraio 2008 quando ha cominciato a collaborare con la Dda di Catanzaro, raccontando non solo i crimini altrui, ma anche i suoi: si autoaccusa di otto omicidi, estorsioni, traffici di droga e armi commessi per scalare le gerarchie della cosca nella sua carriera cominciata con l’affiliazione nel 1985 al clan Grande Aracri a Cutro (Crotone) nella “società minore”. Nel 1990, dopo aver ucciso un uomo, passa alla “società maggiore”. Nel 2007, componente del gruppo di fuoco del boss Grande Aracri, passa al “Crimine” per meriti acquisiti sul campo. Poi la fine: “Dopo il 2008 non ho avuto più rapporti con affiliati alla ‘ndrangheta – ha raccontato durante l’udienza -. Io non voglio più avere rapporti perché mi ammazzerebbero subito”.